Lo zen e l’arte di comprare un’auto usata in provincia | Rolling Stone Italia
Società

Lo zen e l’arte di comprare un’auto usata in provincia

Poche domande, poche cazzate, chiami e ti incontri col tipo. L’affare si fa al bar

Lo zen e l’arte di comprare un’auto usata in provincia

Robert Macdonald / Alamy / IPA

La mia macchina si chiama Ground Zero e questa è la sua storia.

Zona cinesi, Prato. Tutte le mattine andavo al mio primo lavoro dopo un anno e mezzo da disoccupato con la macchina della mia ragazza. In provincia i mezzi pubblici non esistono, o hai quattro ruote o sei fregato. Però non avevo i soldi per permettermi una macchina normale, o una qualche occasione trovata su una app che comunque non è mai un’occasione. Dove sto io la gente lascia le macchine sul ciglio della strada con la scritta vendesi attaccata con lo scotch.
Funziona.

Trovi di tutto: la vecchia Volvo, lo scooternone, la Peugeout incidentata. Poche domande, poche cazzate, chiami e ti incontri col tipo. L’affare si fa al bar. Non sai mai chi c’è dall’altra parte, ma sai che devi stare attento. Rumeni, gente che guida il camion, tizi col nero sotto le unghie… puoi sentire la rudezza palpabile. Una parola di troppo e sei fottuto.

Ground, prima di chiamarsi Ground era parcheggiata davanti a dove lavoravo… c’era niente. Era lì, in pre-morte in una sorta di deposito bombardato, stile Beirut, accanto al camper di uno che ci viveva dentro. Doveva essere un posto che in precedenza aveva avuto una parvenza di Natura ma che ormai era ridotto a un cratere. Le uniche forme di vita transitanti erano i cinesi con la mascherina anti smog e i vecchi col deambulatore che andavano al tabacchi a tentare un Gratta e Vinci.

La summa di tutto questo malessere era il proprietario dell’officina. Lo avevo adocchiato… non era un uomo, era un “coso”. Un tipetto tutto nervoso, basso, sempre con le mani nei motori. Aveva piantato una panchina di un parco pubblico nella piazzetta della rimessa così vecchi e gente col giaccone della Misericordia gli potevano far compagnia in mezzo a tutto quel bel cemento misto amianto. Altri cosi, zombie che fumavano e sputavano a terra, con la faccia da tagliagole. Gesù, la frontiera. Il Far West.

Una mattina mi faccio coraggio ed entro. Appena varco la soglia mi viene incontro Vito, il coso, sospettoso e scazzato. Uno e cinquanta, calvo, col pizzetto ossigenato e due fili di basette spelacchiate, ma a mani nude non avrei mai voluto averci a che fare. Il suo tempio era intriso di odore di nafta, poster di fighe nude e oggetti accatastati. Era convinto volessi vendergli qualcosa, io… col mio profumo comprato da Cirignotta a Milano, il mio bomber, le Blundstone. Il mio retaggio chic del cazzo ereditato da mia madre, per schermarmi dai “bifolchi”. Penso che entrambi fossimo straniati dalla reciproca vista. La sua attenzione era bassissima, già col “buongiorno” gli avevo rotto il cazzo.

Cosa sei? Ricchione?
Questo pensava.
Tagliai corto. Voglio sapere quanto costa la macchina.
La Y?
Si la Y.

Facevo finta di non sapere che macchina fosse, volevo dargli margine, come coi cavalli. Vito zitto, mi guarda incredulo. Dice: è di un cliente. Tergiversa e fa battutine sul tale, un cocainomane. Non credo gli stia simpatico. Vito ha da fare, non crede che io sia realmente interessato, si scoccia con le mie domande, ma quando capisce che sono serio vuota il sacco. Non è proprio che non vuole vendermela, è che lui l’ha messa in vendita all’insaputa del cliente. Cioè quello aveva portato la macchina della suocera a riparare e poi però si era lasciato con la moglie e non aveva saldato il conto. Allora Vito gliela aveva pignorata. Facile come bere un bicchier d’acqua.

Ok la voglio, quanto costa?
Se vuoi te la faccio provare…
No mi fido, quanto costa?

Vito è in bomba, finalmente sorride, crede che io sia un idiota e che potrà farci la cresta, lo capisco subito conosco quel tipo di tipi. Lui ha la serotonina a palla perché finalmente ha la speranza di veder rientrare i soldi di quel lavoro, magari con la cresta. Decide di chiamare il suo ex cliente per chiedergli l’ok, visto che dobbiamo fare un passaggio di proprietà, ma prima lo sputtana ben bene dandogli del cretino. Ci accomodiamo nell’ufficetto. Vito fa il numero. Bestemmia al telefono, l’altro gli ribestemmia addosso. La tensione cresce. Dietro la sedia c’è una sciarpa del Napoli e un fucile da caccia appoggiato al muro. Vito mi fa sottovoce col dito: è per i clienti che non pagano. Mi sta dando il suo biglietto da visita… Silenzio, poi si mette a ridere. Io lo assecondo ma sudo freddo.
Chiude il telefono in fretta, adesso è tutto scherzoso. Vuole ammorbidirmi, vuole testarmi. Rido forzatamente, sono sotto esame.

Riattacca. Ha detto 800…

Ci penso un attimo. Costa meno del mio telefono. Incredibile. E a quanto dice funziona, quindi posso fare le stesse cose di uno con la Tiguan o la Jeep Compass della pubblicità, spostarmi da A a B come tutti, senza treni o tragitti a piedi. Così tiro fuori gli anni di Milano, i baristi che mi trattavano male, l’aver imparato a spintonare sulla metro per non farmi passare davanti.
Ti do cinquecento, ora.

Uhhh come gli sto sul cazzo a Vito. Mi odia lo sento. Le battutine sulle donne non hanno funzionato. Chiama il tipo e gli dice che io metto 500 e che lui ne da 200 e siamo tutti contenti.

il giorno dopo sono con il proprietario della macchina: tale David. Faccia di uno che beve di mattina, logorroico, iperteso. Nel tragitto per andare a firmare le carte alla Motorizzazione Civile mi racconta tutti i cazzi suoi. Tutti. Che lui la macchina l’aveva portata per fare un favore alla sua ex, visto che la usava la suocera, ma che quella stronza non aveva voluto pagare. E lui le dava gli alimenti. Poi il figlio è un pappamolle, non lo aiuta mai, lui ha guidato i camion per 5k al mese ma si è rotto e ora si fa mantenere da una di vent’anni meno. Lavora pure per lei. Mi fa capire che ha pippato, ma che ora ha smesso. Mi offre di accompagnarlo a fare dei lavoretti di muratura in nero ogni tanto. Io non so nemmeno piantare un chiodo per appendere un quadro e dico certo va bene, ma ad oggi non mi ha mai chiamato.

Voleva essere sicuro che non avessi una brutta opinione di lui. Peggio di quella che avevo già era impossibile. Poi ho firmato le carte e Ground è diventata anche per la legge la mia auto.

La prima volta che ho avuto le chiavi in mano l’avevo già comprata. Mi metto al volante e Vito mi sfotte: speriamo arrivi allo stop. Bastardo. Ha i tergicristalli elettrici, per il resto nessun tipo di accessorio. Mi vergogno, mi cago sotto mi sembra di essere alle medie, al tempo stesso giro la chiave e mi accorgo di essere io ad averla spuntata. Ground romba. Dentro profuma di tappetini scaldati al sole, di anni duemila. È una macchina da donne, sedili comodi e spazi stretti. Al posto dello stereo c’è un buco che uso ancora come cassetto. Sembra verniciata a mano con un pennello, ha qualcosa di denso sopra che la scherma dalle onde malefiche di Prato.

Ground Zero si chiama così perché è del 2001 e il soprannome glielo ha dato il mio amico Moreno perché rievoca sia la deflagrazione che il salto temporale a cui è associata. Ground è una macchina improbabile. Ha un che di sovrannaturale, in autostrada la tiro a 150 km/h e il finestrino sinistro in inverno si blocca a metà, devo sempre spingere con le mani per abbassarlo del tutto e poter pagare al casello. Spesso mi faccio male nell’operazione. Dentro ci mangio il pollo arrosto in pausa, ci pratico la meditazione trascendentale e ci dormo. Quando la tiro in quinta da Livorno a Lucca, sul dirizzone mi pare che le ruote si possano staccare da un momento all’altro ma non decelero mai. Mai. Se è freddo il riscaldamento funziona solo al massimo e fa così rumore che non puoi nemmeno parlare al telefono.

D’estate in autostrada con 40 gradi tengo entrambi i finestrini aperti e c’è un gran casino, entrano le vespe. Sembra di stare su un piccolo aeroplano amatoriale. Ground è il mio punto fermo sul presente, l’hic et nunc, mi ricorda la mia caducità, mi ricorda che non ho niente da perdere, che sono in mezzo ai capannoni, che mi sono fottuto Vito e quell’altro perché alla fine l’affare l’ho fatto solo io, che non sono più a Milano e percorro le strade del Degrado come se avessi un destriero meccanico che mi difende con la sua lamiera in vera lamiera (non fanno più niente con la lamiera). A volte la misura di un uomo te la danno i suoi simboli e in quest’epoca ne abbiamo bisogno più che mai.

Altre notizie su:  opinione