Lo scudetto del Milan e l’hauntology berlusconiana | Rolling Stone Italia
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Lo scudetto del Milan e l’hauntology berlusconiana

Nella nuova puntata della rubrica/dialogo a due by Robertini & Piccinini per ‘Rolling’: Umberto Smaila, la 'resistenza by night' del Leoncavallo e il nuovo show di Ricky Gervais su Netflix

Lo scudetto del Milan e l’hauntology berlusconiana

Silvio Berlusconi

Foto via Getty

GR: Questa settimana a Milano sembrava di stare in una fiction “da un’idea di Stefano Accorsi”, millenovecentonovanta e qualcosa: il Milan che vince lo scudetto e il processo Ruby Ter, todo non cambia, siamo sempre lì, hauntology berlusconiana con Leao che flexa a ritmo trap al posto dei trenini Mediaset e Karima “Ruby” El Mahroug che, tra champagne con “scritte fluorescenti” (come riportano gli atti dei pm) e taxi Milano – Genova, si guadagna di diritto un featuring con la SEVEN 7oo di Rondodasosa, membro ad honorem del collettivo drill in quanto prima gangsta di Villa Certosa. Vedo già le sue rime sulle Birkin, perfetto per il tuo “osservatorio borsette” inaugurato su Boomer Gang. A proposito, solo tu mi puoi dare un senso a questa foto del festeggiamento rossonero:

Perché un senso c’è, lo so. Che poi anche questa di Guè dall’Instagram di Umberto Smaila dice molto…

 

 
 
 
 
 
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AP: Piano con l’ironia. Ti ricordo che la musica di Umberto Smaila sta in Jackie Brown di Quentin Tarantino, Robert De Niro guarda alla tv La belva col mitra (1977), musica di Smaila. Bridget Fonda chiede: «Quello è Rutger Hauer?», «No, Helmut Berger». Film ispirato vagamente al bandito Vallanzasca che, facci caso, adesso mi ritorna come skit nel nuovo singolo di Simba La Rue: «Non sono cattivo ho soltanto il lato oscuro un po’ pronunciato». Vallanzasca che voleva rapire Berlusconi, o forse – lo racconta alla fine della sua autobiografia – voleva rapire Gullit e Van Basten per chiedere il riscatto a Berlusconi. Capisci? Un po’ alla volta le tessere del mosaico vanno al posto loro. Ma in generale penso che Berlusconi non abbia avuto l’attenzione che meritava da parte dell’hip-hop italiano. Sempre i soliti Tony Montana, Pablo Escobar, Totò Riina. Una roba un po’ provinciale, no? Senti questa: «Silvio Berlusconi è un gangsta rapper/ Acchitta potte nell’elicottero e atterra sul Piper/ Col rolex, bling-bling e una bandana/ E gli guarda le spalle tutta quanta la madama». Sai chi è? Il featuring di Cole nel disco di Noyz Narcos del 2005. Vintage, legnosa nel flow, ci ho messo un po’ a trovarla ma buono dai. Del resto bisogna essere un po’ boomer per avere una visione prospettica di Milano dagli anni ‘80 agli anni Zero, che è stata tutta una tirata, in ogni senso.

GR: La Milano degli anni Novanta è stata anche altro, per fortuna. Ieri sera sono stato al Leoncavallo alla super festa dei cinquant’anni di Chiovo, personaggio storico della resistenza by night, quando la città non aveva boschi verticali e baby gang, ma alzava barricate di sound system contro il berlusconismo della Milano da bere, a Palazzo Marino c’erano Formentini e Albertini. Al party c’erano tutti: i dj di Pergola Tribe che anni fa, prima che fosse di moda, ospitavano a suonare fino all’alba nel loro squat gente come Goldie e Laurent Garnier, e a ballare la drum’n’bass ci potevi trovare studenti universitari, artisti, Dolce & Gabbana, militanti e vj di Mtv; e ieri c’erano anche i pionieri del rap italiano Kaos e Sean, i Bluebeaters, Painè e quelli di Conchetta, altro storico centro sociale. La musica era bellissima, rocksteady, ragga, electro, old school hip hop e drum’n’bass sembrano resistere perfettamente al tempo che passa: la prova erano i ragazzi appena maggiorenni, i figli degli amici del festeggiato, che ballavano shazammando pezzi come quelli di Ghetto Boys, General Levy, Shy FX. C’era anche una canzone di Buju Banton, star della dancehall e primo a cascare mani e piedi nella cancel culture per i suoi testi omofobi. I centri sociali iniziarono a chiudergli le porte, basta concerti, giusto così. Non erano polemichette da Twitter, insomma. Ah, maledetta nostalgia boomer.

AP: Ma Buju Banton era già impresentabile di suo, e dopo un po’ il ragamuffin s’accollava. Comunque ti sento nostalgico. Sarà il momento, la fine del campionato, i primi caldi, l’afa. L’altro giorno, dopo il carnevale giallorosso e già immalinconito dai post su Andy Fletcher e Ray Liotta, mi accingevo a passare la serata col nuovo show di Ricky Gervais su Netflix. Grande puzza sotto il naso. Beh, sono finito per sbaglio su Rai3 dove davano il documentario di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. E ci sono cascato con tutte le scarpe. Intendiamoci, la morte in diretta all’ultimo comizio filmata in primissimo piano, anche se l’hai vista cento volte, non la puoi spegnere. Più del solito ho capito che Berlinguer aveva perso tutte le sue battaglie, e della società che gli stava crescendo attorno vedeva poco. Infatti nelle testimonianze piangono tutti. Tutti vecchissimi. E pazienza, non si può tornare indietro. Poi sui titoli di coda è partito un assurdo programma su Lino Banfi come se fosse già morto, con l’eterna barzelletta sui frati cappuccini morti. La sai? San Pietro bussa alla porta di dio: «Ci sono due cappuccini». E dio: «Chi li ha ordinati?». Fine. Ecco perché dopo i primi cinque minuti in cui Ricky Gervais chiede al pubblico complicità sulle battute (né belle, né brutte) a proposito di donne, trans, cinesi e non so più quali altri categorie deboli mi sono stufato. Io non voglio partecipare alla furbizia bottegaia di quelli che si sentono superiori al woke, alla cancel culture e, in fondo, anche un po’ al rispetto degli altri. Quello lo lascio volentieri al Giornale, che difatti su Gervais l’altro giorno faceva il solito pezzo sull’«antidoto alle lagne e alla censure perbeniste». Io voglio ridere, stop. Meglio Maurizio Battista allora, lo stand up in via Appia Nuova: «Non c’ho niente contro i gay. So’ pure a favore der matrimonio. Devono soffrì pure loro».

GR: Stamattina mi sono alzato e ho ascoltato il nuovo disco di Shabaka, jazzista consapevole e uber cool. Nel suo EP Afrikan Culture, uscito per Impulse!, suona lo shakuhachi – un flauto giapponese di bambù – accompagnandoci in un elegantissimo viaggione meditativo e spiritual (jazz). Durante l’ascolto spicciavo casa, lavastoviglie, lavatrice, eccetera. Mano a mano che scorrevano le tracce sognavo che il mio appartamento milanese si trasformasse magicamente in un loft di Dalston, Londra, con parquet invecchiato, piante tropicali, una tazza di caffè bollente e odore di ganja biologica diffuso. Io, vestito come Shabaka con delle sneaker a tiratura limitatissima, avrei aperto la porta di casa, attraversato il giardino con l’amaca e infilato le cuffie avrei preso il bus rosso a due piani per andare a incontrare gli amici, Thurston Moore e Tirzah, al Café Oto. E invece ho fatto un meeting su Zoom, due call, qualche mail e ho mangiato un toast cotto e fontina. Passo e chiudo. Anzi, prenotiamo subito un weekend a Londra, ché altrimenti mi ammalo di provincialismo.

 

 
 
 
 
 
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AP: Giusto, alziamo l’asticella. Partiamo. Guarda: domenica 5 al Cafè Oto c’è Mary Lattimore, arpista di Los Angeles ultra ambient che adoro. Ultimo album West Kensington, registrato a Londra durante la pandemia. Parquet invecchiato, piante tropicali, ganja biologica. Alle 2 del pomeriggio, che bellezza. Purtroppo è sold out. Conosciamo qualcuno lì? «Sorry, we are italian journalists. Yes. Do you know “Boomer Gang”? Weekly column, yes. Rolling Stone. Italia, yes. Italia, Milano, Roma. Mourinho, yes. Josè, yes. As Roma, Inter, Chelsea. One Nation, yes».

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