Fanculo Internet che impoverisce il 99% dei musicisti | Rolling Stone Italia
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Fanculo Internet che impoverisce il 99% dei musicisti

I consigli di Daniel Ek agli artisti su come aumentare i numeri di stream su Spotify sono grotteschi. E comunque, trasformarsi da creatori di musica a creatori di contenuti non basta per campare

Fanculo Internet che impoverisce il 99% dei musicisti

Cristiano Godano

Foto: Guido Harari

Buongiorno a tutti. Spero abbiate passato una estate gradevole e possibilmente spensierata (ché di questi tempi la spensieratezza potrebbe essere un discreto lusso). Ritorno a voi con un nuovo scritto, supponendo e intuendo che il mio ultimo abbia destato una certa curiosità e qualche apprezzamento (non vado a leggere i commenti: c’è sempre una elevata probabilità di imbattersi in quel tipo di cattiverie che succhia energie – e di risucchi vitali non necessito – ma so che per uno o due giorni è stato l’articolo più letto del sito). 

Era quello a titolo “Lo streaming sta uccidendo il rock”, e argomentavo sulle miserie economiche che deve digerire la stragrande maggioranza dei musicisti al giorno d’oggi, ovvero ai tempi di Internet. Qualcuno magari ricorda che penso, in modo più istintivo che ragionato, che Internet ci stia fottendo, e non solo noi musicisti: un giorno, se avrò i guizzi interiori giusti, allestirò uno scritto attraverso cui farvi apprezzare un gustoso dialogo fra Yuval Noah Harari e Mark Zuckerberg via YouTube. Gustoso e istruttivo. Nel frattempo lascio una mezza intuizione qua, avuta l’altro giorno al riguardo: si sarebbe dovuto regolamentare Internet (bella scoperta eh?). Ma quando nacque, intendo dire (bella scoperta lo stesso eh!?). È una cosa che penso e so che tuttora avrebbe i suoi arguti detrattori, ovvero l’intellighenzia della rete. Di sicuro li avrebbe avuti (come in effetti li ebbe) nei periodi pionieristici, quando era garantita la gogna all’insegna di una sorta di ideologia a cavallo fra l’anarchia e una visione molto idealizzata della democrazia a chiunque si fosse azzardato a paventare certe ipotesi: e infatti ogni misero tentativo di porre delle regole venne deriso e aggirato all’istante, derubricando gli impavidi propositori a sottocategorie squalificanti varie. Danno e beffa all’ennesima potenza. E l’ideologia proseguì.

Io però penso che se ci fosse stata la possibilità di mettere delle regole, anche a costo di rischiare turbolenze sociali difficilissime da gestire, oggi ad esempio, nello specifico di ciò di cui sto parlando, il 90% dei musicisti non sarebbe forse rassegnato con frustrazione tramortita all’idea di non cavare un cazzo di un soldo dai suoi lavori dell’intelletto (mi rileggo e comprendo che qualcuno potrebbe sbuffare fra sé e sé: “ancora con ste cose?”. Beh: sono su un sito che si occupa principalmente di musica, e mi sembra ragionevole cercare qui una piena comprensione empatica. Non da tutti, la mia frustrata rassegnazione me lo suggerisce, ma da qualcuno sì).

Dopo quell’articolo, uscito poco più di un mese fa, ho notato tre intriganti coincidenze, che impilo in ordine cronologico. È per via di tali coincidenze che mi è venuta voglia di dilungarmi ancora un po’ su queste problematiche.

1) Il CEO di Spotifiy, Daniel Ek, quasi mi rispondesse dalla sua Svezia, consigliava ai musicisti di cambiare metodo di lavoro, smettendola di impiegarci del tempo, comunque troppo a prescindere secondo i suoi parametri, a pensare e realizzare i propri dischi. 
2) Mentre MK procedeva verso Udine per il primo dei suoi tre concerti estivi, nella seconda metà di agosto, il nostro polistrumentista Davide Arneodo ci diceva di essersi imbattuto in rete in un sondaggio accurato fatto in Inghilterra a musicisti professionisti: per esso si stimava che il 60% di loro stesse, come evidentemente sta, meditando di abbandonare e cercare un altro mestiere dopo la batosta del Covid (sento l’italiano medio sibilare caustico in lontananza: “A cercarsi finalmente un lavoro! È finita la pacchia!”).
3) Proprio su questo sito, l’8 di settembre, usciva un articolo dal titolo agghiacciante: “Lo dicono i numeri: lo streaming funziona solo per l’1% degli artisti“. Agghiacciante, sì, anche se il mio articolo diceva più o meno questo, senza però osare spingersi fino a quel mostruoso 1%. Una cifra che comunque mi conforta perché evidentemente non avevo scritto niente di ingenuo o esagerato. 

Vediamo dunque questi tre punti.

Le parole di Ek sono sostanzialmente queste: «Alcuni artisti che in passato avevano fatto bene, potrebbero non avere simili risultati in futuro. Non sarà possibile registrare musica una volta ogni tre o quattro anni, non possono pensare che sarà sufficiente. Ai musicisti famosi si richiede impegno maggiore, più coerente e prolungato rispetto al passato, continuo con i loro fan, con i quali è doveroso mantenere un dialogo continuo». Delizioso, paternalistico Ek… So di musicisti che lo hanno mandato a fare in culo (il mio adorato David Crosby lo ha twittato in questo modo: «obnoxious greedy little shit») adducendo però un motivo che, secondo me, rende gioco facile a quel tipo di amanti della musica sedicenti o sé pensanti modernisti (non trovo termine migliore) che si percepiscono così avanti coi tempi da rifiutare l’idea di volerci riflettere su e contare fino a dieci prima di prorompere in una sfilza di “ma” a empatia tendente a meno infinito. E, come ho lasciato a intendere, se vien meno anche l’empatia di chi ama la musica… beh, è finita proprio. E quale sarebbe dunque questo motivo addotto dai musicisti inviperiti? Che l’arte ha bisogno dei suoi tempi. E che per fare un gran disco serva… tutto il tempo che serve.

A parte che un po’ è vero (seppur non sia una conditio sine qua non), c’è pure da ritenere che i tempi cambiano, e che in effetti si potrebbe cambiar metodo e cominciare a sfornare canzoni più velocemente, come dei 45 giri (eh?) slegati dall’urgenza artistica di pensarli insieme a altre canzoni in un corposo 33 (eh?) (caro Ek: ogni quanto ci consiglieresti a questo punto di produrre una canzone nuova? Pendo dalle tue labbra…): in fondo è ormai piuttosto evidente che i dischi intesi come collezione di pezzi da ascoltare in rigoroso ordine di scaletta siano oggetti con destino “museo archeologico”, e dunque, perché no?, fin lì si potrebbe anche arrivare, abdicando a certe abitudini in via di estinzione. Al progresso è inutile opporre certe resistenze: quando arrivarono i primi supporti fonografici su cui riprodurre la musica la più parte dei compositori dell’area classica ne rimase inorridita, ritenendo che non fosse minimamente possibile pensare a un ascolto altro che non fosse quello della dimensione live, con l’orchestra e il direttore a performare di fronte a un pubblico in carne e ossa. Si dice che Stravinskij, allora giovane e “rivoluzionario”, avesse invece compreso che forse non c’era nulla di male, approcciandosi con curiosità a tale novità…

Ci sono però altre due cose che anche a me fanno girare i coglioni: la prima è che Ek non dice, nella sua tiratina d’orecchi, che anche cambiando metodo il risultato a somma quasi-zero non cambia. L’ho scritto nel mio scorso articolo: 1 milione di streaming frutta, nelle tasche di un musicista di quattro in una band che divida equamente i suoi introiti e che passi per una etichetta discografica, 250 euro lordi (non ho dimenticato nessuno 0). Quindi, amorevole Daniel, perché non fai notare al mondo che il 90 per cento dei musicisti non ci arriva e non ci arriverà mai all’emblematico e del tutto simbolico milione di streaming per un suo pezzo sulle tue piattaforme? Forse intendevi dire che se facessimo uscire un pezzo al giorno magari in 365 ci arriviamo? Per poi guadagnare 250 euro lordi in un anno?

La seconda cosa che mi fa girare le palle non è solo la seconda di due, ma si aggiunge alla prima rendendo grottesco il tutto. Immaginiamo la situazione paradossale di un pezzo al giorno, estremizzazione di un concetto che parrebbe inoppugnabile secondo la logica di mercato di Ek, ovvero che non è più possibile lasciar passare troppo tempo nel fare i propri dischi (la parola “dischi” suona così surreale in questo discorso basato sullo streaming, che è l’80% del mercato…). Estremizziamo dunque, e pensiamo di fare un pezzo al giorno (e di intasare, detto en passant, le playlist, i cui ascoltatori in verità non si decuplicheranno per magia, ma saranno sempre più o meno gli stessi grazie ai capricci degli algoritmi e grazie al fatto che se tutti i gruppi del mondo si comportassero per ipotesi assurda allo stesso modo ci sarebbe una quantità mostruosa di musica del tutto impossibile da ascoltare… altro che un milione di streaming): dove troveremo il tempo da spendere sui social per accudire i nostri ammiratori? Già così, caro Daniel, noi musicisti stiamo trasformandoci da creatori di musica che credevamo di essere in creatori di post, e di tag, e di storie, e di contenuti. E di foto da editare, e di grafiche da pensare, e di parole da ponderare bene, perché se le diciamo male il pubblico ci deride e ci massacra. Credimi, dolce Ek, ci siamo arrivati da soli ad accudire il nostro pubblico, e abbiamo incidentalmente anche scoperto che per certi versi è bellissimo: ma l’impiego di energie che serve per ottenere i risultati puramente mercantili di cui parli (perché è ovvio che ti frega poco del lato umano della faccenda) è del tutto sproporzionato rispetto alla frustrante performance che si ottiene in termini di engagement, e tu lo sai molto bene che è così, per vari motivi fra cui alcuni da me detti nel mio articolo precedente (ricordatevi, miei lettori, che per far arrivare a più gente un mio post io devo pagare al fottuto Zuckerberg la fottuta promozione, se no col cazzo che arriverò all’agognato nuovo pubblico, e comunicherò in verità più o meno sempre alle stesse persone. E non è che con Instagram sia meglio eh…).

Mi fermo qua, ma tenete a mente il terzo punto che ho impilato poco sopra (quello del mostruoso 1%): quando ne parlerò troverete intuitivamente riscontri con queste deduzioni in tema di engagement e playlist.

Desidero però sottolineare, prima di abbandonare Ek, che in fondo egli, paternalismi fastidiosi a parte, non è certo il colpevole della situazione: come potrebbe decidere di aumentare il valore al giorno d’oggi ridicolo di 0,005 lordi a clic e renderlo remunerativo per ogni singolo musicista? Già così si dice che comunque Spotify sia in perdita… E comunque che fa? Lo porta a, per dire, 0,05 sempre lordi? Cambia forse di molto? Sempre un milione di streaming a pezzo va fatto (in tal caso ci sarebbe una remunerazione di poco migliore… Ma ripeto: chi cazzo li fa 1 milione di streaming se non chi fa musica estremamente popolare e massiva?). La colpa in verità… è di Internet, che premia solo le genialate di chi, come Ek, trova l’applicazione o la piattaforma giusta per la svolta miliardaria della vita (e se la sua creatura è in perdita, non vuol dire che non abbia un valore strabiliante sul mercato: basta venderla et voilà, le centinaia e centinaia di milioni di profitto si aggiungeranno alle centinaia e centinaia già accumulate. E credo proprio che Ek altro non stia facendo se non portare la piattaforma a un valore enorme per poi andare all’incasso. E noi musicisti a sbavare coi suoi 0,005 euro lordi del cazzo a clic, che messi tutti insieme fanno il suo patrimonio e la nostra centellinata miseria. Pensateci: è un po’ come i nostri clic in rete di ogni giorno, quelli che facciamo passando da un sito all’altro per i beati cazzi nostri. Ogni nostro click, gentilmente offertoci gratis dalla premiata ditta a nome Internet, sommato a quello dei miliardi che siamo sul pianeta fa la loro immorale ricchezza. Il tema è quello dei big data: potete informarvi). Ne parlavo nel mio penultimo articolo: Internet è, secondo me, fonte di opportunità per un 10% massimo di usufruitori, il resto del mondo si spartisce le briciole facendo la fame. E non è un eufemismo. Appunto: Internet ci sta fottendo tutti, cvd (che non è il Covid senza vocali, bensì “come volevasi dimostrare”). Ma questi son solo i miei due cent.

E veniamo al 60% dei musicisti inglesi che starebbero meditando di cambiare lavoro. Ho ben poco da dire. Googlate “64% musicians considering leaving professions” e… buona lettura. Comprenderete che tolti i concerti (grazie Covid!) molti musicisti semplicemente non ce la faranno più. «Beh, ma il Covid è una sfiga colossale», direte voi, «se non ci fosse il problema non ci sarebbe». Certo: i musicisti non abbandonerebbero forse, ma è evidente che se dalla musica registrata e venduta non si guadagna più nulla restano i concerti: e secondo voi il giro di introiti legato solo ai concerti è un eldorado per chiunque? La risposta ve la dico io: è no. Il giro dei concerti è uno sbattone pieno di incognite, legato com’è alla dimensione del tuo pubblico e al fatto che non puoi suonare trenta-quaranta volte all’anno ovunque: avete presente il concetto della saturazione del mercato? Per cui, ancora: grazie Internet! (Sempre i miei due cent).

Infine quel mostruoso “lo streaming funziona solo per l’1% degli artisti”. L’articolo è questo e vi consiglio di leggerlo con attenzione: a differenza delle mie prolissità arriva al punto velocemente. Ma in tutta verità: diffido della vostra reale attenzione. Qui dunque riporto i passaggi salienti.

Questo ad esempio: «C’è stato un tempo in cui lo streaming era considerato una piccola utopia, un ecosistema musicale in cui qualunque artista avrebbe avuto accesso al pubblico, un mare infinito di possibilità di ascoltare dischi underground diversi dai soliti successi». Ecco, dal punto di vista del musicista io non ho mai creduto neanche lontanamente a questa cosa. Così come MK poteva teoricamente arrivare ovunque e a chiunque nel mondo, così qualsiasi gruppo del mondo poteva a sua volta arrivare ovunque e a chiunque: e secondo voi questo crocevia impazzito di vettori e file sparpagliati nell’etere come una nuvolaglia gigantesca e tumultuosa poteva venir intercettato da un pubblico così voglioso di voler ascoltare tutto di tutto e anche di più? Ma vi pare credibile? (Mi fa sorridere come la fandonia politica dell’uno che valeva uno: e c’era chi ci credeva).

In realtà l’underground è per definizione una musica per pochi, e i molti che non la ascoltano in genere per quale motivo avrebbero dovuto cominciare ad ascoltarla? Solo perché era possibile averla a disposizione? Andandosela dunque a cercare diventando ascoltatori attivi e intraprendenti? Davvero secondo voi un pubblico interessato a musica mainstream avrebbe trasformato il suo ascolto passivo in uno che va a cercarsi musica nel sottobosco? Certo che no, e così è stato. E allora, direte voi, se già prima era così… E certo, ma quando la musica la si poteva vendere fisicamente e non c’era Internet anche 30.000 copie di un CD generavano un introito onorevole con cui guardare con ottimismo al futuro e nel frattempo vivere dignitosamente. Ora di dischi se ne vendono, quando va bene, 3000… e il business è finito. E dovreste ormai sapere bene, passando allo streaming, quanto possono valere, per dire, 3000 streaming… (o 30.000). Nel caso riprendetevi le mie cifre del mio precedente articolo (un aiutino… a 3000 si sta al di sotto di 10…)

Altro passaggio dell’articolo: «E invece il mondo dello streaming somiglia alla vecchia industria discografica. Oggi come allora, solo un gruppo ristretto di artisti gode di gran parte dell’attenzione degli utenti. Anzi, praticamente di tutta. Lo streaming non ha colmato il gap che separava grandi e piccole produzioni, lo ha anzi allargato». Poco da aggiungere: è così, e semmai vi rammento che quella parola, gap, mi riconduce al vuoto che c’è fra i due lati della forbice di cui vi ho detto la scorsa volta. Un grosso vuoto, sempre più grosso, laddove una volta c’era la situazione mediana, quella delle 30.000 copie fisiche vendute che non ti facevano diventare ricco ma ti permettevano di godere del tuo orgoglio di musicista non piegato alle leggi del mercato eccetera. Quella situazione mediana non c’è più, e questa è l’immagine ormai stra-nota della forbice sociale.

C’è poi questo passaggio: «Tornando allo streaming, il 10% degli artisti raccoglie l’attenzione di quasi tutto il pubblico, mentre il restante 90% è ascoltato dallo 0,6% degli utenti». Non male no? È sempre stato così? Certo, infatti l’underground è per pochi. Ma, lo ripeto fino allo sfinimento, prima di Internet ognuno aveva la sua remunerazione, e così l’underground: ora, grazie a Internet, solo chi fa numeri mostruosi è remunerato, il resto no, clamorosamente no (dunque non solo l’underground, ma tutto ciò che non è nei polpastrelli dei ragazzini quando compulsivamente cliccano sui loro beniamini centinaia di volte al giorno). Certo, non si può piacere a tutti e ce ne si fa una ragione, ma il non piacere a tutti ai tempi di Internet ha un costo in termini di mancati guadagni di entità enorme e insanabile. E, come ho già scritto, fin che il modello di business rimane questo, non vedo come ci si possa adattare per essere al passo coi tempi e trovare la propria soluzione creativa, che semplicemente non c’è se non ambendo ai polpastrelli fuori controllo dei ragazzini.

E poi questo, letale: «Quasi metà degli artisti totalizza meno di 100 stream per la musica pubblicata». Se da una parte è ragionevole pensare che non tutti i gruppi del mondo abbiano un grosso pubblico (ragionevole e ovvio), fa comunque specie pensare a certe cifre per la metà degli esistenti. Ecco, caro Daniel Ek, ho motivo di credere impossibile che la tua tiratina d’orecchi si rivolgesse a tutti i musicisti che tanto contribuiscono a rimpinguare le tue tasche, perché se almeno un 50% di loro nemmeno arriva a 100 stream, tu sai benissimo che costoro non avranno mai alcuna chance di ricavare alcunché dal tuo adorabile servizio. Neanche se si mettessero a coccolare i loro 100 ascoltatori 18 ore su 24 ogni giorno, innaffiandoli dell’affetto virtuale costante che tanto ti premuri di evidenziare come decisivo e cruciale.

L’articolo chiude così: «Lo scorso anno Daniel Ek ha stimato che ogni giorno vengono caricate sulla piattaforma qualcosa come 40.000 canzoni. Per gli artisti è sempre più difficile farsi notare tant’è che alcuni pagano società specializzate nel far arrivare la propria musica sulle playlist della piattaforma. E Jason Grishkoff, che guida una di queste aziende, la SubmitHub, dice: “Qualunque cosa tu faccia, finirai per soccombere. Non invidio gli artisti”».

Ah, quanta miseria: spero la riusciate a intercettare tutta. Cogliete? Non guadagni un cazzo, lo sai e ti affidi a una società che spinga in qualche modo per farti entrare nelle playlist che funzionano. Ma per funzionare davvero devi comunque arrivare a centinaia di milioni di streaming, playlist dopo playlist, algoritmi che fibrillano, rimpalli fra l’una e l’altra e orde di ragazzini che si innamorano compulsivamente di te e del tuo pezzo non rap, non trap, non pop, non soul, non dance, non maranza, non reggaeton, non mainstream. In realtà quei milioni di streaming non li farai mai, perché se li possono permettere solo l’1% degli artisti, come il titolo dell’articolo dice. E questa è la verità. E quindi tu, che non stai guadagnando un cazzo, paghi per giunta una azienda (o la tua etichetta lo fa per te, fino a che si riuscirà o solo per via di un contratto in essere) per provare ad avere un po’ di streaming in più, ma anche se arrivassi a 3 milioni, risultato eclatante, guadagneresti comunque cifre ridicole (fate 250 per tre). Ecco il significato di quel «Qualunque cosa tu faccia, finirai per soccombere» detto da quel signore che guida una di quelle aziende, perché di questo si sta parlando. Non è forse tutto ciò talmente drammatico da diventare ridicolo e grottesco? Inutile farvi notare poi, per concludere, quel roboante “40.000”: mi riconduce all’ecosistema musicale dell’utopia degli inizi dell’era streaming… Come poter pensare che la gente sia interessata a 40.000 pezzi ogni giorno? (Ovviamente il giorno successivo saranno altri 40.000 eccetera). Neanche il melomane più incallito potrebbe con regolarità quotidiana stare dietro anche solo allo 0,1% di questa abnormità.

Fanculo Internet. 
I miei due cent.

C’è una “morale”. Da un certo punto di vista nessuno ne può niente, soprattutto voi ascoltatori (certo, se dopo queste parole continuate a craccare Spotify siete riprovevoli), ma l’empatia di cui parlo qua e là dovrebbe essere garantita: costruttiva, positiva, complice. Una pacca sulla spalla confortevole, vera e franca. Un rispetto aprioristico. La fine del sarcasmo e dell’ironia dei fenomeni.

Per come stanno le cose un certo mito rock coi suoi musicisti e il suo corredo di ascoltatori variegato, dall’entusiasta dozzinale all’incallito appassionato che frequenta forum e si ciba delle novità più esclusive recependole dai luoghi virtuali più cool della rete, o che recensisce dischi nei blog o nei siti (alcuni con piglio professionale assai equilibrato e ammirevole, altri con un sussiego e una causticità seccanti, pensandosi fighi quanto basta per sentire di avere un seguito di fighi esclusivi quanto loro, tutti persi nei meandri di una attitudine di sublime autoreferenzialità), o ancora che suona in altri gruppi e rosica in sottotraccia per chi ce la fa o ce l’ha fatta, non vedendo l’ora di detronizzarlo dopo averne seguito i primi lavori, esibendo distrazioni snob sui suoi dischi successivi o peggio andando nei suoi social a lanciare frecciatine argute per ostentare la superiorità teorica del suo giudizio o la qualità irraggiungibile del suo sarcasmo…

Ecco, tutto questo giochino che è parte consustanziale del mito del rock sta per appartenere, credo, a un mondo in via di estinzione, che in realtà esiste ancora e soltanto per fattori inerziali comprensibili. Non c’è quasi più nulla da invidiare nel/del circo rock, se non l’aura che promana da chi su un palco riesce a salirci sempre e comunque di fronte a un suo pubblico, e l’ironia beffarda che si è soliti riservare a chi non è più considerato degno di attenzioni particolari è come un’arma brandita contro creature a volte esanimi e in lotta per l’esistenza: non c’è niente di onorevole nell’uccidere un uomo moribondo. Moribondo non per causa sua, desidero sottolineare. 

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