FaceApp dimostra quanto siamo fessi | Rolling Stone Italia
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FaceApp dimostra quanto siamo fessi

Dopo lo scandalo Cambridge Analytica e la multa che Facebook dovrà pagare per violazione della privacy, dovremmo aver imparato che dietro ogni app si potrebbe nascondere una minaccia ai nostri dati personali. Giusto?

FaceApp dimostra quanto siamo fessi

Fondamentalmente, siamo un branco di pecore belanti. Se è estate, giù a pubblicare foto delle nostre chiappe al sole e belare su quanto stiamo bene con le chiappe al sole. Il giorno dopo, qualche simpaticone ci ruba le foto con le chiappe, ci mette la sua faccia (non sulle chiappe, o forse sì), si spaccia per noi e si diverte a prendere il nostro posto. E noi giù a belare che, signora mia, non esiste più la privacy di un tempo. Poi arriva un giochino scemo, un test per la precisione. Un test per valutare la nostra personalità, che già a dirlo così è chiaro che è una supercazzola, ma noi invece a belare di quanto siano fighi e a pubblicarne l’esito. Poi salta fuori che il test è un modo furbo per rubarci i dati e che questi dati son stati utilizzati per veicolare gli esiti di importanti elezioni. Tipo quella di Trump del 2016. Urca: giù tutti a belare che Zuckeberg è l’anticristo e che non è giusto violentare in questo modo la nostra privacy.

A volte dovremmo fare pace col cervello e imparare dai nostri errori. Voglio dire: lo scandalo Cambridge Analytica ha fatto scuola, tutti ne abbiamo preso coscienza e tutti, si sperava, ne avessimo tratto delle buone conclusioni. Tipo che le app, specie quelle gratuite, possono nascondere insidie grosse così per i nostri dati. Ok, questo era bello che palese, finalmente. Passa poco più di un anno, non un’era geologica, se ne esce una nuova app che funziona da filtro capace di invecchiare il nostro aspetto. Tu gli dai la foto, lui te la restituisce mostrandoti come sarai da vecchio. Mica, in cambio, ti aggiunge uno zero al conto corrente, o ti regala almeno un voucher per un caffè, no. Applica un filtro, anche carino per carità, e ti mostra la tua faccia incartapecorita. Ma tu, forte di Cambridge Analytica, forte di tutte le battutine che hai fatto a Zuckerberg per i 5 miliardi di dollari che pare dovrà pagare per questo scandalo (ed è notizia di cinque giorni fa, tra l’altro), forte di tutte le porcate scoperte in materia di violazione della tua privacy… ecco a fronte di tutto questo col cavolo che usi l’app che ti invecchia, giusto? Giusto giusto? Ma nemmeno per sogno: in pochi giorni le timeline di Facebook si riempiono di facce di ottuagenari simulati, spesso e volentieri migliori delle facce originali, felici come bimbi dell’asilo nel mostrarsi in età pensionabile.

Di cosa si tratta

FaceApp, questo il nome dell’app di cui stiamo parlando, ha alle spalle tre anni di vita ed è stata lanciata nel 2016 da Wireless Lab OOO. Si tratta di un software che, grazie all’intelligenza artificiale (viviamo in tempi in cui è di moda parla di intelligenza artificiale un po’ a caso, ma su questo soprassediamo), modifica il volto che si fotografa, in base a una serie di filtri messi a disposizione in forma gratuita o, per i più utili e avanzati, a pagamento. Diciamo che funziona come Photoshop, o come i filtri di Instagram, ma dato che il tipo di elaborazione offerto è piuttosto complesso, i calcoli non sono gestiti dal singolo dispositivo ma da cloud.

Significa, in buona sostanza, che se decidi di far invecchiare il tuo volto, l’immagine originale non è modificata all’interno dello smartphone con cui hai scattato la foto, ma viene inviata a dei server esterni che si occupano di tutta l’operazione. Il fatto che FaceApp utilizzi l’intelligenza artificiale, in particolare reti neurali, significa che ha bisogno di alimentare un raffinato sistema software di nuovi volti, per migliorarlo mano a mano. Funziona un po’ come un artista umano, che più disegna e più diventa bravo, ed è per questo che la tecnologia di FaceApp offre risultati sempre più realistici mano a mano che elabora nuove foto. Niente di male, per carità, almeno fino a quando, in questo processo, le immagini raggiungono i server esterni. Qui la gestione della privacy diventa quanto meno fumosa e non è chiaro, per esempio, né cosa Wireless Lab OOO effettivamente se ne faccia di tutte queste foto, né per quanto tempo queste siano conversate nei suoi server. In questa situazione d’incertezza, a molto non servono le rassicurazioni del CEO della società, Yaroslav Goncharov, ex di Yandex, il più celebre motore di ricerca in Russia. Goncharov sostiene che le foto servono solo a effettuare le elaborazioni richieste dagli stessi utenti, e che in genere sono conservate per un periodo di 48 ore.

Il vero problema

Ora, al di là delle mere questioni legali legate alla privacy, c’è una considerazione tecnica da fare. Oggi disponiamo di smartphone molto potenti, di potenza paragonabile spesso a quella di grossi computer. Pensiamo, per esempio, ai modelli che dispongono addirittura di processori dedicati proprio alla gestione di reti neurali, come il Kirin di Huawei, che contiene una Neural Processing Unit. Viene dunque facile chiedersi come mai sia necessario caricare una foto in un server remoto, per elaborarla, quando tutta l’operazione potrebbe essere eseguita direttamente nel dispositivo. Se poi pensiamo ai costi di gestione di una simile tecnologia cloud, e al fatto che Wireless Lab OOO finora ha ricavato solo qualche centinaio di migliaia di euro dalla vendita dei filtri aggiuntivi, è chiaro che ci deve essere qualche fonte di sostentamento economico aggiuntiva. Quale? Perché dei volti umani, nel caso, potrebbero rappresentare un business d’interesse? Perché questi volti, come dicevamo, alimentano un sistema di intelligenza artificiale che migliora proprio in base alla quantità di facce elaborate. Per ciascuna rileva dati biometrici e li usa per effettuare modifiche sempre più precise e realistiche. Ma questi dati biometrici, una volta raccolti, possono essere anche utilizzati per creare volti nuovi, sintetici ma assolutamente credibili. E questi volti potrebbero essere la base per creare profili social fake, creare masse critiche di utenti fake, utilizzare le masse di utenti fake per sostenere opinioni e, a quel punto, influenzare i media e le idee di cittadini veri. Di elettori. Se consideriamo la quantità e importanza delle elezioni che ci saranno, a livello mondiale, nel 2020, il quadro diventa inquietante. Al punto che, visto che tra queste elezioni ci sarà quella del prossimo presidente americano, il senatore Chuck Schumer ha chiesto un’indagine dell’FBI per far chiarezza su FaceApp e le conseguenze che potrebbe avere il suo utilizzo.

Dobbiamo quindi disinstallare FaceApp e gettare lo smartphone nell’inceneritore? Calma. Innanzitutto, non c’è ancora una chiara evidenza che FaceApp svolga attività in qualche modo malevole. Il punto, però, è un altro. Non possiamo considerare la privacy come un bene a cui dare importanza solo quando ci fa comodo. La privacy, oggi, deve diventare una forma mentis, essere innestata in ogni processo logico che facciamo, anche se questo, a volte, comporta delle rinunce. Se poi la rinuncia per un filtro che ci fa sembrare dei vecchi rintronati ci sembra dolorosa, forse è il caso di rivedere le priorità nelle nostra vita.

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