Coronavirus e genitori. La loro gioia colpevole nelle videochiamate: finalmente ti vedono | Rolling Stone Italia
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Coronavirus e genitori. La loro gioia colpevole nelle videochiamate: finalmente ti vedono

Magari non vi vedevate da Natale, oppure comunicavate solo con le emoticon: adesso però, con l’isolamento da virus, non c’è niente di più struggente della loro gioia colpevole nelle videochiamate

Coronavirus e genitori. La loro gioia colpevole nelle videochiamate: finalmente ti vedono

Foto Getty

Nulla è più struggente della loro gioia colpevole nelle videochiamate. Un semi-organismo lungo cento nanometri ha fatto nuove tutte le cose. Tra le nuove cose c’è il rapporto con i genitori rimasti in quell’altrove che un tempo chiamavi casa.

Guardali bene: quel sorriso che si pente, quelle frasi che decollano tutte squilli e subito atterrano sulla mestizia che conviene alle circostanze, quegli occhi che luccicano verso il basso. Aspetta, amore, che tolgo un pelo dal copridivano: il mondo muore e adesso loro sono contenti, che vergogna. 

Magari non vi vedevate da Natale. Chiamate, messaggi. Forse qualche foto, che hanno l’inerzia e la riciclabilità di tutte le cose morte. Soprattutto emoticon, che evitano la fatica del pensiero: due tocchi di pollice tra un’email e l’altra e li avevi già sistemati. Chi ha tempo da perdere? Tanto i genitori se ne staranno lì per l’eternità, no? Ad aspettare un tuo cenno, quell’unica certezza che conta per loro – che tu sia felice di essere vivo –, quel che resta di una carezza dopo un viaggio di vent’anni e mille chilometri. D’altronde, un cuoricino non potrà dispiacergli. Dice tutto per non dire nulla. È un segnaposto verbale, un passe-partout emotivo, uno sforzo d’ideazione delegato a un programmatore giapponese, l’ipocrisia in tre millimetri rossi. Ma loro si facevano andare bene anche l’ipocrisia, perché quella era la tua ipocrisia. 

E adesso, in isolamento, trovano segrete alleate nella tua noia e nella tua paura. È bello vedere le reazioni alle parole che pronunci. Per quanto tu urli, gli anchorman dei bollettini di morte se ne fottono di ciò che dici. Quelli continuano come neanche: 371 nuovi contagi… Di colpo ti ricordi perché abbiamo costruito una civiltà. La magia della voce, capace di cambiare le espressioni degli altri. Videochat di gruppo, quelli del calcetto, i compagni di scuola invecchiati, i colleghi improvvisamente fratelli, i fidanzati distanti improvvisamente perfetti, gli amici di weekend e di sbronze che quando tutto sarà finito sai che casino faremo. E non sono nemmeno le 16.

E allora…benvenuti anche a voi nel nostro millennio, cari genitori, dove tutto è vicino: virus, volti, successo, apocalisse. Venite, sarà fantastico. No, mamma, il tasto per accettare è quello verde come nelle telefonate normali. Hai presente i semafori? Inclina il polso, papà. Se ti vedi tu, lì in basso, allora ti vedo anche io. Ed ecco l’antico fastidio. Invecchiano, i tuoi genitori invecchiano. Come cazzo si permettono? Le risposte lente, la luce azzurra degli smartphone che ne calca le rughe, le parole che si alzano e accavallano per quel microfono eccezionalmente distante. Tocca spiegargli come funziona un mondo che non capisci nemmeno tu. Sono loro, che dovrebbero spiegartelo. Era questo il patto, no? Non era andata così per la fotosintesi e per le guerre puniche? Puoi arrivare a spiegargli il meccanismo della videochiamata, ma per quello della pandemia non c’è santo che tenga. È buio e tutti smanacciano e schiamazzano alla cieca. I tuoi genitori non possono proteggere te, e tu non puoi proteggere loro. Non c’è niente di più violento di questa realtà. Almeno per chi ti ha dato la vita: tu sei fragile, per quante arance ti abbiano spremuto, per quante sciarpe ti abbiano avvolto attorno al collo.

Ma sia tu sia loro sapete la verità: sono più fragili di te, e proprio perché invecchiano. I tuoi genitori, che ti avevano spiegato le ragioni delle cose, devono chinare la testa di fronte all’idiozia della statistica. Se l’ultima immagine che avrai di loro fosse quella lì, sfocata e scattosa? Se la qualità di un addio eterno fosse in balia dei misteri cretini della connessione? E allora si parla di cibo, del quadro alle tue spalle, della macchia sulla tua felpa che “te la laverei io”, dei capelli che crescono e misurano rudimentalmente il tempo informe come tacche in una caverna preistorica e “quando vieni qui te li tagli dal mio parrucchiere”, di tutto ciò che si può dire per non cedere alla retorica dell’unica frase sincera, quella che vi ronza in testa ogni secondo: siamo qui, insieme, e siamo ancora vivi.   

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