Conglomerandocene: Pietro Pacciani e la solitudine dei villain | Rolling Stone Italia
Conglomerandocene
Società

Conglomerandocene: Pietro Pacciani e la solitudine dei villain

Nell’undicesima puntata della rubrica dello Sgargabonzi per Rolling Stone: fratelli sardi sessuomani, contadini usciti dalle tenebre, satanisti e altre storie sull'incredibile caso del Mostro di Firenze

Conglomerandocene: Pietro Pacciani e la solitudine dei villain

Pietro Pacciani durante il processo sul caso del "Mostro di Firenze"

Foto: Wikimedia

Quella del Mostro di Firenze è una vicenda criminale a suo modo unica: un assassino seriale di otto duplici omicidi, che non lascia nessun superstite e non viene mai individuato. Una storia peculiare studiata e analizzata nelle università di tutto il mondo, in cui più ti ci addentri, più ti documenti, più cerchi di farti un’opinione, più la nebbia si fa fitta. In questa oscura vicenda non è che mancano gli indizi. Al contrario: sono tanti, troppi, spesso frutto di insabbiamenti attivi e passivi, e portano dalle parti più disparate. E ancora: è un caso di cronaca con assassino seriale che, una volta tirati fuori dei sospettati, non ha partorito dei deludenti topolini ma solo figure di grande potenza narrativa, una sorta di sandbox di storie misteriose e folli. Negli anni si sono avvicendati, in ordine sparso: fratelli sardi sessuomani, contadini usciti dalle tenebre, satanisti, massoni, maghi, uno stilista con l’HIV, un bambino che canta La Tramontana, un medico ritrovato suicida al largo del Trasimeno, uno scrittore italiano di best-seller, uno Zodiac in trasferta a Falciani, un mercenario della legione straniera con trecento scalpi sulla coscienza. Personaggi degni di un film di Russ Meyer. Una storia piena di dettagli straordinariamente evocativi. Ed è assurdo come, nell’immaginario comune, il Mostro di Firenze abbia il volto di Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale.

Ricordo bene il processo di primo grado a Pacciani. Facevo le superiori e non me ne perdevo una puntata. Tangentopoli mi aveva abituato bene: memore dell’ineccepibile induzione logica di Di Pietro a spese del sistema cardiovascolare di Sergio Cusani, avevo piena fiducia anche negli investigatori, pubblici ministeri e giudici di questa ben diversa vicenda processuale. E se avessi dovuto puntare mille lire, avrei detto che era proprio Pacciani ad essersi macchiato di almeno quattordici dei sedici omicidi. Quell’orco pieno di contrasti. Spaventoso e allo stesso tempo divertente, ingenuo e affabulatore, goffo e con qualcosa di sexy, furbo ma con una tecnica difensiva a dir poco fallimentare (negava a prescindere qualsiasi cosa). E poi pareva uscito da un racconto di Gozzano, in cui tutto era declinato in uccio. “Il mi’ ortuccio… la mi’ mogliuccia…”. Mogliuccia che durante le intercettazioni ricopriva di improperi e di minacce perché colpevole d’essersi lasciata sfuggire qualche dichiarazione ambigua davanti al PM, ma lei comunque in carcere gli portava le rose. Bestiale, iracondo, stravagante e passionale, pittore naif e poeta stralunato, mangiafuoco di piazza (da cui il soprannome Vampa) e partigiano decorato, taccagno e avido fino alla patologia, uno a cui la vita non aveva dato nulla, uno che in vita ha cercato di riprendersi tutto quel che poteva, zappata dopo zappata, schiaffo dopo schiaffo. Vorace di donne e di terra, così palesemente diverso dall’identikit del Mostro che pure l’FBI aveva tracciato, ma comunque senza ombra di dubbio colpevole: d’essere così brutale e reale, dei suoi istinti bassi e delle sue intuizioni alte, della sua teatralità ridicola, capace di commuoversi soltanto quando riaffiorava il ricordo di certi pollettini arrosto alla festa dell’Unità di Cerbaia. In fin dei conti non abbastanza subdolo per cavarsela, più impetuoso che intelligente, travolto da sé stesso, sconfitto dalla nascita.

Mi ricordo in piedi davanti al catodico di camera mia, ad attendere la sentenza di primo grado che vide Pacciani condannato, con lui rosso in volto che si mette a piangere, urla disperato e viene inghiottito dalla folla di poliziotti. Mi misi a piangere anch’io. Proprio perché tutto meno che un brav’uomo, la sua disperazione mi faceva male. Ci vedevo la solitudine del mostro, lui solo davanti al suo Male.

Il successivo processo ai complici, i cosiddetti compagni di merende, sarebbe stato pieno di momenti iconici. Penso a quando il Vanni in aula inveisce contro il pubblico ministero Canessa e viene portato via inneggiando “Viva il Duce, il lavoro e la libertà! Ritorneremo!”. Ecco, io non riesco tutt’ora a vedere quella scena senza commuovermi alle lacrime. Vedo proprio questo vecchio, che nemmeno si rendeva conto di cosa gli stava succedendo e lasciato solo anche dai familiari, aggrapparsi ai propri pochi punti fermi, peraltro sepolti dalla Storia. “Tanto… e son solo… c’ho solo l’avvocato Filastò”, diceva mentre lo portano via. Avrei voluto spupazzarmelo come Baglioni nel finale de I Vecchi: “I vecchi / se avessi un auto per caricarne tanti / mi piacerebbe un giorno portarli al mare / srotolargli i pantaloni e prendermeli in braccio tutti quanti”.

In questi anni, un momento tipico che ho dovuto sopportare nei monologhi di alcuni miei colleghi comici è la classica battuta in cui si attribuisce a Pietro Pacciani (senza stare manco a pensarci) l’identità del Mostro di Firenze. Di solito lo si fa per fargli portare a casa “dei pezzi di fica”, questo il twist dell’imperdibile boutade. E il pubblico della stand-up – gente che notoriamente non saprebbe disegnare una O con un bicchiere e che sarebbe stata catturata dopo il primo delitto – risponde sempre con grasse, pleonastiche e sesquipedali risate. E il comico di turno pensa garrulo fra sé e sé: “e anche questa risata la mettiamo in bacheca, sotchmel!”.

Come esistono gli acrotomofili eccitati dai moncherini e i frotteuristi che si infoiano nei pigia-pigia dei concerti di Biagio Antonacci, pure io ho sempre avuto un particolarissimo kink: quello di spiazzare tutta questa gente facendogli sapere che Pietro Pacciani morì libero, prosciolto in appello. Una cosa che nessuno ricorda mai. E non sto a specificargli che l’appello fu poi rigettato per un vizio di forma e se ne sarebbe fatto un altro. Che Pacciani non fosse il Mostro e che Vanni e Lotti non fossero i suoi complici, lo dimostra il fatto che le indagini sono continuate e continuano a ritmo indefesso, anche a più di cinquant’anni dal (probabile) delitto originale e anche dopo che i condannati sono morti uno ad uno. Come dimostra anche Al di là di ogni ragionevole dubbio, il fondamentale libro di Paolo Cochi, non il solito saggio a tesi ma un monumentale lavoro d’archivio e proattivo alla ricerca di nuove prove, che in questi anni ha rimesso questa vicenda al centro dell’attenzione. Col senno di poi, nacquero in quelle aule di tribunale gli odierni infiniti meme e i pelosi tormentoni su queste facce e sulle loro disgraziate famiglie, inserite quotidianamente nel tritacarne delle missioni LOL dei social network.

Vedendolo a distanza e mettendo la mordacchia alle risate, quel processo fu allucinante. Il PM che indugiava su particolari lubrici e suggestivi ma del tutto marginali alla vicenda criminale. Pacciani e gli abusi alle figlie, il Vanni e le violenze alla moglie, i vibratori, le prostitute, i rapporti omosessuali e tante situazioni degne d’un film di Nando Cicero virato al nero pece. Il pubblico degli anni ‘90, solleticato da quel moralismo calato ad arte come neve a Natale, si sentì satollo e migliore nel vedere quei brutti ceffi condannati. E non era importante se Pacciani fosse o meno il Mostro. Al pubblico andava benissimo che quel padre padrone finisse i suoi giorni in carcere pagando le colpe di qualcun altro. Quel pubblico era soddisfatto, pacificato, non voleva sapere altro. Indro Montanelli lo definì: “Il trionfo astratto della giustizia”.

Questa sera alle 22.00 andrà in onda su Raitre uno speciale di Un Giorno in Pretura su quella vicenda processuale, comica e tristissima allo stesso tempo. Non sarebbe l’ora che faceste le persone normali e ne coglieste il dramma.

Altre notizie su:  Conglomerandocene opinione