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Conglomerandocene: Il concerto di Aleandro Baldi

Nella nuova puntata della rubrica dello Sgargabonzi su Rolling Stone, rievocazione di un concerto memorabile

Conglomerandocene: Il concerto di Aleandro Baldi

Uno dei più vividi ricordi della mia adolescenza è quando, saranno stati i primi anni 90, per la serata di chiusura della festa del mio paese invitarono il cantante Aleandro Baldi.

Ricordo che l’evento era sponsorizzato da un’acqua minerale locale di cui non faccio il nome, ma che era famosa per il suo sobrio slogan: “L’acqua che cura il cancro”. Era un evento in cui nessuno credeva ed era stato organizzato solo per compiacere la giunta comunale e avere il pavé nel centro storico.

Ricordo che avevano comunque messo su un bel palchetto, l’avevano costruito con delle cassette della frutta ed era stato posizionato in mezzo a uno sterrato molto signorile attiguo ad un canale di scolo della Chiana.

Era una tarda serata di fine estate e a dire il vero non era venuta molta gente. C’erano soprattutto anziani non autosufficienti, parcheggiati lì da figli e nipoti che volevano prendersi una serata libera per andare a donare il midollo osseo o fare volontariato fra i malati terminali di HIV.

Il gruppo che introduceva Aleandro Baldi era un’orchestrina di liscio della zona, Le Idi di Marzo. Ricordo che si dilettarono in mazurke, cha cha cha e qualche cover di musica atonale di Edgar Varese.

È notte fonda quando vediamo Aleandro arrivare da solo, da Pontassieve credo, a passi lenti, quasi impercettibili. Era seguito a ruota da un nugolo di contadini che vangavano via la terra che calpestava, per poi rivenderla su Secondamano a prezzi esorbitanti.

Lo stile di Aleandro era essenziale: tutto vestito di nero, gli occhiali neri, gli occhi bianchi. Serio, ma non aggressivo. Più che serio, mogio mogio. Non c’era nessun addetto che lo accompagnasse sul palco, perché non volevano responsabilità che inciampasse. Così salì da solo, a tentoni. E sul palco c’era solo lui, abbandonato a sé stesso, perché non era stato possibile nemmeno pagare un’orchestrina. Non ricordo bene, ma mi pare che il suo saluto fu qualcosa tipo: “Scusate…”. Uno del pubblico vestito da Davy Crockett rispose con una standing ovation. Accortosi che faceva un freddo cane, Aleandro tentò di abbracciarsi per farsi un po’ calduccio, ma fece fatica a trovarsi. Quindi si posizionò tremante davanti al microfono, che purtroppo era della Fischer Price e l’asta non andava più su di un metro. Ma lui senza lamentarsi, ci si rincagnò tutto per donarci la sua arte. Poi tirò fuori di tasca una clavietta Bontempi, di quelle a bocca, e iniziò a suonare la sua canzone più famosa: Non Amarmi. Ogni tanto smetteva di suonare per cantare. Sia la sua parte che quella di Francesca Alotta. Ma più spesso per tossire, guaire o sputare palle di pelo. Ricordo che aveva la pelle bianchissima, sottile, quasi trasparente. Il volto molto scavato, quasi fosse un teschio e la sua solita inconfondibile pettinatura, che lui andava a farsi i capelli alla Playmobil. Ci deliziò con le sue canzoni più allegre, da Ti Chiedo Onestà fino a I Care, dedicata a Don Milani, poi si interruppe per raccontarci una barzelletta: “Lo sapete qual è il colmo per un cieco?”. Un teso silenzio si fece spazio tra il pubblico. “Non poter vedere la donna che ama”. Era decisamente troppo. Fra il pubblico già provato, molti scoppiarono in lacrime, persone che si odiavano da una vita si abbracciarono strette, una vecchia signora si accecò con un ferro da calza e a New York due aerei si schiantarono contro le Twin Towers. Anche Aleandro piangeva. Non si vedevano le lacrime, ma i suoi occhiali tutto a un tratto si appannarono, conferendogli un’aria ancora più fascinosamente inebetita.

Di colpo iniziò a piovigginare. In un attimo, le gocce impietose sciolsero la sua già fragile pettinatura, che perse la tinta e tirò fuori il verde rame. Poi scoppiò un acquazzone ma lui continuò a cantare, impavido nella furia della natura, anche se si vedeva che ormai non stava bene. Venne quindi il momento dell’omaggio. Ombrello-dotato salii sul palco per donargli, a nome di tutto il paese, la nostra specialità gastronomica tipica: l’aglio crudo e cattivo. Non me l’aspettavo, ma come glielo porsi la sua faccia si piegò in una smorfia di orrore e morte, mentre i lampi illuminarono i suoi lunghi canini. Salutò il pubblico in tutta fretta e si fiondò a tentoni alla gola di una giovane vergine, quindi salì in macchina, da solo, e sparì nella notte. Lo ritrovarono il giorno dopo, appena cento metri più in là, schiantato contro l’acquedotto.

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