Con le sue modelle "brutte", Gucci sta iniziando una rivoluzione | Rolling Stone Italia
Società

Con le sue modelle “brutte”, Gucci sta iniziando una rivoluzione

Ellie Goldstein con la sindrome di down, Armine Harutyunyan con le sue voluminose sopracciglia, Silvia Calderoni con la sua queerness. Ecco come le modelle scelte da Gucci stanno distruggendo "l'estetica dell'irraggiungibile"

Con le sue modelle “brutte”, Gucci sta iniziando una rivoluzione

Sei brutta, non ti vogliamo, non puoi stare qui. Non ci piace il tuo corpo amorfo, le tue sopracciglia incolte, la tua ambiguità. Non capiamo, cosa sei? Perché hanno scelto te? Se possono scegliere te allora potrebbero scegliere pure me. Eppur hanno scelto me. Siamo disgustati dal tuo essere alieno, dal tuo aspetto incomprensibile, non catalogabile, inafferrabile. Non vai bene. Ci spaventi. Non vogliamo sognare te, non vogliamo identificarci con te. Vogliamo l’irraggiungibile, non il freak. Sei una mostruosità. Noi vogliamo la bellezza, unica ed eterna. E tu sei brutta. Sei brutta perché sei diversa.

Silvia Calderoni, Armine Harutyunyan e Ellie Goldstein sono i nomi delle donne vittime di bodyshaming per esser state scelte come volto della maison Gucci. La motivazione è di essere considerate brutte per rappresentare Gucci. Come ha scritto la giornalista Giusy Cinquemani, continuando a stimolare il bodyshaming su Il Fatto Quotidiano, “la modella è brutta perché, se fosse stata bella, non staremmo qui a parlarne da giorni”. Questo è il problema: le tre donne sono accusate di non essere belle e quindi di non poter rappresentare una casa di moda di tale prestigio. Ellie Goldstein poiché affetta da sindrome di down, Armine Harutyunyan per le sue voluminose sopracciglia, Silvia Calderoni per la sua queerness, la sua ambiguità estetica, identitaria, sessuale. In nome di un bello assoluto, al brand e alle modelle viene condannata la fuga dai canoni estetici della nostra storia recente. Come si permette Gucci di mostrarci tali anormalità?

Partiamo da una premessa scolastica: il concetto di bello, quanto i canoni estetici che ne derivano, non sono immutabili, ma costrutti che si adattano e modificano con l’evolversi naturale della società. Queste scelte di Gucci, e del suo creative director Alessandro Michele, hanno dunque accelerato i tempi dell’imminente declino dell’odierna estetica dell’irraggiungibile, adeguando i propri valori estetici ad un futuro prossimo, un adeguamento iniziato dalla generazione Millennials e consolidato dalla Gen Z.

Per citare Paul B. Preciado, filosofo e pensatore transgender spagnolo presente nella nuova webserie di Gucci, diretta da Gus Van Sant con Alessandro Michele, e con protagonista la performer e attrice Silvia Calderoni, siamo all’alba di una rivoluzione dell’amore. Perché parliamo di amore quando parliamo di persone, corpi e, infine, di noi stessi. Questa rivoluzione vuole inventare una moltitudine di soggettività inedite, coscienze alternative, estetiche che travalichino il binarismo di genere. E questa moltitudine di soggettività siamo noi, le persone comuni, i non-belli per antonomasia, coloro che non hanno il volto e il corpo adatto per le odierne pubblicità. Questa rivoluzione è la nostra rivoluzione. Siamo alle porte dell’auto-determinazione, di fronte alla potenza di essere ciò che ci sentiamo di essere, lasciandoci alle spalle l’era bio-politica, come la definisce il filosofo francese Michel Foucault, in cui il corpo dell’individuo è sempre da correggere poiché non è di suo possesso, ma di appartenenza dell’uomo/marito/padre e, per estensione, dello Stato e a Dio.

Rivendicare la vita, i bisogni, il desiderio. Ci stiamo riprendendo il nostro corpo, senza più l’obbligo di paragonarlo a riferimenti e idoli impossibili; non dovrebbe, tutto questo, essere rilassante? Non è rilassante potersi guardare allo specchio senza più paragonarci alle Kardashian o alla boyband di turno, riappropriandoci dei nostri corpi, riportando a noi la possibilità di essere bellezze? Perché abbiamo così paura di allontanarci dai canoni recenti, canoni edificati su un retaggio patriarcale e coloniale dell’uomo bianco, etero, occidentale, costruiti per omologarci ed annullarci?

“Le persone sono spaventate da quello che è diverso. Ci sono molti modi diversi di essere belli: consiglio di concentrarsi su di sé, su chi si è e su cosa si ama davvero” ha dichiarato Armine Harutyunyan stupita dai sorprendenti e immotivati attacchi ricevuti. Silvia Calderoni, in un’intervista qui su Rolling Stone, ci aveva invece raccontato come “non si tratta tanto di sfuggire a delle etichette, quanto di essere liberi di definirsi come si desidera e di poter cambiare quella definizione ogni volta che si vuole. Ciò detto, io posso definirmi in un modo adesso e in un altro tra cinque minuti, e senza che siano gli altri a definire me: è questo che rivendico”.

La società ci obbliga all’emulazione di un modello irraggiungibile poiché, sfruttando la nostra eterna insoddisfazione, ci schiavizza e costringe all’acquisto compulsivo e reiterato di prodotti studiati per il nostro continuo tentativo di miglioramento. È questo il gioco-forza del capitalismo, forgiarci lenti perverse con cui osservare il nostro corpo, fino a farcelo immaginare come inadatto, inopportuno, brutto. Ogni diversità, ogni singolarità, ogni slancio – anche se arriva da una brand – dovrebbero quindi essere festeggiati e supportati come gesti di liberazione da questa oppressione estetico-sociale.

Questi corpi a-normali delle Calderoni, delle Harutyunyan, delle Goldstein sono già normalità. E se alcuni parlare di moda è discorrere sul nulla, è importante comprendere che anche la scelta di un volto per una campagna è una scelta politicizzata verso una nuova stagione dell’inclusività. Eppur ogni qualvolta che un brand pone modelle e modelli con un’estetica che si discosta da certi canoni, c’è ancora chi insorge, offeso da tale blasfemia. A preoccuparci è forse la possibilità di essere noi stessi, di costruire e mostrare noi stessi, di fallire come noi stessi? Di sapere, infondo, che possiamo essere giusti nel modo in cui siamo fatti ora? Di essere giusti, adesso?

E mentre noi mostri, noi freak, ci risvegliamo guardando con beatitudine alle scelte di casting di Alessandro Michele, il conservatore ne teme le conseguenze, spaventato da come un volto possa diventare totem di una rivoluzione dell’estetica. Siamo in un momento di transizione per la nostra società occidentale, un bivio che condurrà ineluttabilmente verso l’impotenza o verso la futurabilità, per usare termini cari al filosofo e pensatore contemporaneo Bifo. Dobbiamo scegliere: decadimento dell’impero o rivoluzione dell’amore. È arrivato il momento di iniziare ad amarci di a considerare la nostra difettosa realtà come la più normale delle possibilità. Ricordandoci, come dice il critico Achille Bonito Olive, che la moda veste l’umanità, mentre l’arte la mette a nudo. E noi, da nudi, siamo bellissimi.

Altre notizie su:  opinione