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Voglia di comunità: la musica a Torino dopo l’Eurovision

Intrattenimento e cultura, il dualismo fra grandi e piccoli eventi, sostenibilità e gratuità, il ruolo del pubblico, la scena locale: giro di pareri su quello che l’esperienza dell’ESC può insegnare alla città

Foto: Eurovision/Città di Torino

A due settimane dalla fine di Eurovision, che abbiamo seguito su Rolling Stone concentrandoci sull’aspetto legato all’entertainment e alla competizione, possiamo fare qualche bilancio soprattutto su Torino. Non tanto per chiederci se fu vera gloria, ma per capire come – stando alle dichiarazioni della città – si voglia fare tesoro di questa esperienza per il futuro.

Indubbiamente, Eurovision è stata l’occasione di ripartenza. Simbolicamente, ma anche dal punto di vista pratico. Non solo per la vita sociale così come ce la ricordavamo, ma proprio per una città, Torino, che anche prima del blocco pandemico ha incontrato spesso molte difficoltà diventando una città in crisi, impoverita e dal clima sempre più depresso.

Ci sarà tempo e modo per capire quanto abbiano influito le scelte politiche della precedente amministrazione (che per dirla tutta Eurovision l’ha voluto e difeso, così come ha voluto le ATP Finals), la congiuntura economica, la storica – più narrativa che effettiva – reticenza della città ad aprirsi al nuovo e farsi valere, o l’ormai letterario genere di argomentazioni sul passaggio dall’era industriale all’era dei servizi. Però abbiamo voluto cercare di capire come effettivamente poter raccogliere il meglio di questa esperienza e garantire a una città che da sempre ha una floridissima scena musicale underground, innovativa e capace di muoversi su più generi (dall’elettronica all’hip hop, dal punk hardcore all’indie rock) una nuova stagione andando anche oltre il dualismo un po’ miope tra grande evento e piccolo evento diffuso sul territorio (altro genere letterario della politica, soprattutto in campagna elettorale).

«Il grande evento in sé non è colpevole di nulla», dice Francesco Astore, direttore artistico dell’Eurovision Village, il luogo in cui la manifestazione ha vissuto durante le serate che hanno portato nel Parco del Valentino 220 mila persone. «La nostra esigenza e la nostra volontà è stata di coinvolgere e unire artisti del territorio dando un pubblico a chi prima non ce l’aveva e progetti internazionali. La nostra soluzione è stata quella di proporre e sviluppare numerose produzioni originali e collaborazioni inedite». Per quanto riguarda il futuro: «Abbiamo dimostrato di poter fare un lavoro di rete inclusivo con partner locali e grandi realtà del terzo settore, oltre agli sponsor». E la comunità artistica torinese, conclude Astore, «è un valore aggiunto e va coinvolta nel modo giusto».

Sulla necessità di un impegno attivo della comunità artistica torinese si spende da tempo Max Casacci. Co-fondatore e chitarrista dei Subsonica, attivista, ex direttore artistico del Traffic Free Festival (che ha portato in città concerti gratuiti entrati nell’immaginario collettivo come quello dei Daft Punk nel 2007), attualmente Casacci affianca all’attività da musicista anche quella politica impegnandosi attivamente in una lista civica di sinistra (Torino Domani) e lavorando come consigliere di zona a Torino. «Il primo elemento positivo da considerare è che abbiamo superato la psicosi di Piazza San Carlo». Casacci fa riferimento ai disordini durante la finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid il 3 giugno 2017 che portarono alla morte di tre persone e che hanno rappresentato una cesura netta e inevitabile del modo in cui si sono vissuti e fruiti gli eventi in città (e non solo). «Questo è un risultato di lungo termine da cui effettivamente possiamo ripartire».

Sul dopo-festival, invece, bisogna partire da una premessa: «Conosco bene la vertigine che si prova quando organizzi una cosa e vedi arrivare decine di migliaia di persone. Non confondiamo il contenitore con il contenuto: siamo sicuri che un modello così generalista funzioni senza il traino mediatico dell’evento Eurovision dato che il pubblico è stato numerosissimo anche nelle serate in cui non c’erano eventi sul palco ma solo il maxischermo per seguire la competizione?».

Quando si ragiona sul considerarlo qualcosa di nuovo, bisogna ricordare che «Torino ha una programmazione di qualità unica in Italia per quanto riguarda i festival musicali, la ricchezza dell’offerta e l’eterogeneità delle band e degli artisti. Spero che Eurovision possa innescare semmai un cambio di mentalità: l’amministrazione deve mettere nelle condizioni migliori le esperienze che ci sono già, che sono già eccellenze internazionali e che rappresentano modelli esistenti da valorizzare». La proposta di Casacci? «L’amministrazione dovrebbe avere il coraggio e la lungimiranza di intestarsi un passaggio di mentalità netto che renda Torino una vera e propria capitale internazionale della musica. Gli elementi ci sono tutti. Bisogna investire su iniziative permanenti e professionalità: ad esempio, istituire una Music Commission. Del resto, per Torino la musica è sempre stata un asset fondamentale».

Sulla professionalità e sul lavoro si concentra Giovanni Semi, professore di sociologia all’Università di Torino che si concentra sulle dinamiche di gentrification cui ha dedicato due libri (Gentrification. Tutte le città come Disneyland? e l’ironico Bdsg: Breve manuale per una gentrificazione carina): «Se guardiamo a una città in caduta libera come Torino, se ci sono grandi eventi come Eurovision e c’è capacità di gestirli al meglio sicuramente male non fanno perché danno respiro a settori in crisi come ristorazione e alberghiero, attraggono risorse che gocciolano. Piuttosto, dobbiamo aprire un discorso su come usare questi eventi in maniera intelligente». Ad esempio: «Concentriamoci sul lavoro: il lato positivo degli eventi è che fanno girare la macchina e fanno circolare denaro. Il lato negativo è che lo fanno circolare tra poche mani e creano lavori di bassa qualità e mal pagati quando addirittura non pagati».

Anche qui la proposta è di natura politica, più che di mercato: «Perché il comune non si struttura come public company per organizzare e gestire eventi senza esternalizzare? Si creerebbe una struttura interna, si creerebbero posti di lavoro stabili, e ci sarebbe il giusto tempo per una programmazione di lungo termine. Diamo per scontato gli eventi debbano essere puro mercato, ma una regia urbana sarebbe un segnale molto forte e aiuterebbe a creare molte più cose anche dal punto di vista del lavoro, che non diventa più estemporaneo. Soprattutto in un quadro in cui il Reddito di cittadinanza è già molto più competitivo rispetto ai compensi per questi lavori».

Sulla valorizzazione delle eccellenze, poi, si esprime Sergio Ricciardone. Direttore artistico di Club To Club Festival, il più grande festival avant pop a livello nazionale, recentemente inserito da Pitchfork nella lista di eventi da non perdersi per il 2022 (unico caso in Italia, a Torino): «Eurovision è stato senza dubbio un fatto simbolico per Torino, che si è riappropriata degli spazi pubblici. Ha dato visibilità alla città in quanto evento di costume. Per quanto riguarda la musica, credo sia necessario che la città coltivi le cose che sono sul territorio facendole crescere e proteggendole. C’è infine una grande urgenza di apertura di spazi vecchi e nuovi per la musica e le arti tutto l’anno. Un nuovo festival potrebbe invece avere senso se fosse una vetrina/laboratorio per gli artisti della città e gli artisti nazionali/internazionali con cui sono connessi».

«Per me l’esperienza di Eurovision è assolutamente positiva, ma chiamiamo le cose col loro nome: intrattenimento. Qualsiasi iniziativa è positiva se aiuta ad accendere la luce su quello che succede in città, facendo da traino alla realizzazione di potenzialità di valore esistenti e che diversamente rischiano di rimanere soffocate. Per questo dobbiamo capire se vogliamo vedere Eurovision come un punto d’arrivo oppure come un punto di partenza», aggiunge Gianluca Gozzi, direttore artistico di TOdays Festival e del Circolo della Musica. «L’intrattenimento ha bisogno di consumatori, i festival musicali e artistici invece creano una comunità critica, creano valore. Un pubblico che sa scegliere è un pubblico che non si accontenta, che diventa protagonista e sa valorizzare l’offerta, anche pagando un biglietto giusto».

Questa attenzione sulla comunità è necessaria perché «spesso in Italia si confondono intrattenimento e cultura, siamo ancora fermi agli “artisti che ci fanno – solo – divertire” mentre la cultura e gli eventi sono un tema di formazione e di lavoro». Per una città che riparte, però, c’è bisogno di tutto, il mainstream e l’indie, senza confondere categorie. La sfida per l’amministrazione è «non entrare in competizione con il privato, ma facilitarne le condizioni di sviluppo e rete. Politicamente è bello avere il bagno di folla ai concerti gratuiti, ma poi cosa resta? Un sistema che funziona è un sistema sostenibile che crea professionalità (che si paga), che attrae artisti internazionali (che costano) e progetti inclusivi che creano una comunità consapevole che sceglie e non subisce un grosso evento gratuito per divertirsi e basta». E sul gratuito, un’ultima provocazione: «Facendo passare l’idea che la musica e l’intrattenimento siano gratuiti, ogni volta che mettiamo un biglietto ci troviamo un sacco di gente che ci dice: e io perché dovrei pagare per qualcosa che mi arriva altrove gratis?».

Torino ha da sempre un grande potenziale inespresso e una linfa sotterranea musicale che spinge per creare qualcosa di nuovo e non solo nei quartieri centrali e gentrificati. La sfida è ripartire da un evento che ha acceso una miccia e fare in modo che non si spenga.

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