Viaggio nel mercato nero dove gli artisti pagano per avere milioni di stream | Rolling Stone Italia
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Viaggio nel mercato nero dove gli artisti pagano per avere milioni di stream

Dopo aver letto questo articolo comincerete a leggere i dati dei servizi di streaming con occhio critico. Ecco come si comprano gli ascolti per generare hype. «Sappiamo come manipolare il sistema»

Viaggio nel mercato nero dove gli artisti pagano per avere milioni di stream

Illustrazione di Joan Wong per Rolling Stone US. Foto utilizzate: GSPictures/Getty Images

L’industria musicale è ipercompetitiva, eppure nell’estate del 2019 le principali aziende del settore, dalle major discografiche alle piattaforme di streaming, si sono unite per una causa comune: firmare un codice di comportamento che condannasse la manipolazione degli ascolti digitali, una pratica che gonfia i numeri degli artisti su piattaforme come Spotify e Apple Music e riduce potenzialmente i guadagni dei più piccoli.

«La manipolazione dello streaming è una piaga di cui l’industria soffre da anni», ha detto John Phelan, direttore generale dell’International Confederation of Music Publishers. «C’è un mercato nero del pay-for-play».

Poco dopo la firma del codice, alcuni dirigenti del gruppo Blueprint, azienda di distribuzione e management che lavora con artisti da Grammy, hanno partecipato a una conference call con l’esperto di digital marketing Joshua Mack, come dimostra una registrazione audio ottenuta da Rolling Stone US. Due dei CEO di Blueprint, Gee Roberson e Jean Nelson, il capo della digital strategy Bryan Calhoun e il capo del marketing Al Branch hanno esplorato varie opzioni per gonfiare i numeri di una futura release del rapper G-Eazy, un artista di cui curavano il management. «Voglio che diventi bello grosso», dice uno dei membri del team di G-Eazy.

Mack dice a Blueprint che può gonfiare gli stream di un artista, ma che c’è un prezzo da pagare. Venditore esperto che lavora in un’industria dove l’hype è una normale procedura operativa, Mack spiega che il suo «network» può generare «200 milioni di stream al mese» da dividere tra i suoi clienti musicali tra cui pare ci siano almeno una dozzina di artisti molto noti e grosse etichette. La registrazione della call permette di entrare nel mondo segreto delle aziende che lavorano nell’industria discografica cercando di sedurre artisti, manager ed etichette con la promessa di milioni di stream.

Mack ammette tranquillamente a Blueprint che Spotify l’ha già punito per le sue attività, ma spiega che molti artisti continuano comunque a usare i suoi servizi. Perché? «Abbiamo craccato il codice», dice, «sappiamo come manipolare il sistema e raggiungere cifre astronomiche».

È da quando è nata l’industria del disco che artisti ed etichette cercano i manipolare i dati di vendita. Oggi è però lo streaming il traino principale del settore e perciò molti dei tentativi di manipolazione si sono spostati nella sfera digitale, là dove Mack offre i suoi servizi. In una serie di slide ottenute da Rolling Stone, l’azienda di Mack, la 3BMD, offre aiuto tra le altre cose in campi come «streaming playlist PR», «social media PR» e «music audio PR».

Per i non iniziati, la gente che lavora nella promozione streaming sembra parlare un’altra lingua. Elogiano i «save rates» (un utente che salva una canzone nella sua libreria o playlist, segno di un maggiore investimento nell’ascolto) e gli ascolti «premium» (cioè quelli degli abbonati, che contano di più nelle classifiche rispetto agli utenti free) e usano frasi come «attivare l’algoritmo».

Il vocabolario sarà nuovo, ma secondo gli esperti di digital marketing la manipolazione dello streaming ricorda la vecchia payola usata in radio: aziende terze acquistano il controllo di playlist o network di playlist e si fanno pagare per inserire canzoni in lista (a differenza della payola, però, la Federal Communications Commission non ha ancora imposto alcuna regola).

Esistono anche tecniche più avanzate di manipolazione dei numeri. Alcune aziende elaborano software che generano automaticamente migliaia di nuovi account di bot che ascoltano a ripetizione una certa canzone o playlist. Quest’attività non si limita a gonfiare i numeri degli stream (e degli ego). Grazie al modo in cui i servizi di streaming pagano gli artisti – dividono il totale sulla base degli stream ottenuti dai detentori dei diritti sul brano – la manipolazione dei dati finisce per abbassare i guadagni degli artisti che non usano queste tecniche.

Queste attività possono essere controproducenti per gli artisti che ne beneficiano. Sono infatti contrarie ai termini di servizio di tutte le maggiori aziende di streaming, che hanno attivato sistemi che segnalano ascolti potenzialmente manipolati. A gennaio, Spotify ha cancellato decine di migliaia di release dalla piattaforma sostenendo che avevano accumulato «stream artificiali». «Avere a che fare con gli stream artificiali può causare la riduzione dei numeri gonfiati, il ritiro delle royalties e, se necessario, la rimozione delle tracce dalla piattaforma – in breve, può danneggiare nel lungo periodo le prospettive di un artista», dice un portavoce dell’azienda.

Almeno una major, la Sony Music Entertainment, ha esplicitamente detto ai suoi dipendenti che «la manipolazione degli stream da parte dei dipendenti e di terze parti è proibita». In alcuni casi, però, artisti e manager possono farsi coinvolgere in queste attività senza nemmeno rendersene conto, pagando un’azienda di digital marketing che sostiene che le sue tecniche siano legittime – come la pubblicità su Facebook, per esempio, o l’inserimento di canzoni in playlist che non richiedono pagamento – per poi vedere le proprie opere cancellate dalla piattaforma. «È importante che gli artisti e i manager sappiano che alcuni servizi promozionali usano la manipolazione degli stream senza dichiararlo, lasciando che siano gli artisti a pagarne le conseguenze», ha aggiunto il portavoce di Spotify.

«Tutti cercano di arrivare nelle playlist, tutti cercano una spintarella», dice Chris Anokute, ex manager A&R che ora lavora per Young Forever Inc. «La maggior parte delle etichette si rivolge ad aziende terze. E a quanto pare alcune di queste aziende agiscono fuori dalle regole».

Secondo molte fonti dell’industria, però, sottoposti a un’incredibile pressione per aumentare i risultati dello streaming, anche i player più esperti possono chiedere un aiuto esterno.

«Alcune di queste aziende lavorano e parecchio per le major», afferma un A&R di una grossa etichetta che ha chiesto di restare anonimo per paura di ritorsioni. «Anche noi lo facciamo per alcuni artisti. Accettiamo di spendere una certa somma di denaro per ottenere un certo numero di stream. È come se ci dicessimo: siamo bravi, abbiamo giusto bisogno di un po’ di steroidi per aumentare le prestazioni e fare di meglio».

Durante la conference call con Mack per discutere i numeri della prima settimana di uscita del disco di G-Eazy, i dirigenti di Blueprint Group – manager esperti che lavorano con molti artisti di alto profilo – chiedono direttamente ai venditori del servizio quali metodi usano per aumentare gli stream.

«Salviamo il disco e alziamo i numeri… su diversi device, sempre con account premium», risponde Mack che rassicura poi Brueprint che gli stream generati sono tutti «negli Stati Uniti», presumibilmente per garantire che gli ascolti abbiano un impatto sulle classifiche locali. C’è un altro elemento che contribuisce «a far alzare i numeri». Mack li chiama «album buys» e arriva a dire che la sua azienda ha «acquistato 8000 album» per un rapper molto famoso.

Mack non spiega il meccanismo che regola questi acquisti. Allo stesso modo, è riluttante nell’elencare i dettagli del metodo che usa per aumentare gli stream. «È la nostra formula segreta», dice. Quando nomina alcuni presunti vecchi clienti, non dice mai quali sono i progetti a cui ha contribuito e i membri di Blueprint gli chiedono raramente ulteriori informazioni.

Rispondendo a una richiesta di commento da parte di Rolling Stone US, Mack ammette di aver parlato con Blueprint Group, ma non vuole rispondere a domande specifiche sulle affermazioni che ha fatto durante la call. Il motivo, spiega, è che non ricorda i dettagli. Specifica anche che quella era una presentazione di vendita e che «è possibile che alcune affermazioni fossero esagerate». Nella registrazione della chiamata, per esempio, Mack dice di aver lavorato con una superstar globale e che ha «ingaggiato i migliori team di ogni Paese al mondo» per contribuire alle campagne promozionali. Nel comunicato che ha inviato a Rolling Stone US, però, dice di «non aver mai lavorato» con l’artista in questione.

Nello stesso comunicato spiega brevemente in cosa consiste il suo lavoro con gli artisti: «In quanto azienda di marketing, abbiamo investito in pubblicità e social media per far crescere le nostre campagne. Non posso commentare nel dettaglio una conversazione privata avvenuta due anni fa, posso dire però di aver creato una struttura originale che permette alla business intelligence di guidare il processo decisionale».

Nel corso del lungo scambio con Blueprint (più di 100 minuti), Mack nomina una gran varietà di artisti ed etichette – tra cui vere e proprie star e grosse label – con cui sostiene di aver lavorato. «Se smettessimo di premere i bottoni, quelli delle etichette non avrebbero la risposta e il supporto che attualmente ricevono», dice nella registrazione. «Ecco la verità».

Dice anche che a volte gli artisti si muovono per far aumentare gli streaming senza dirlo alle label. Come? Utilizzando per i servizi di Mack il denaro guadagnato dai concerti o fondi destinati ai video. «Prendeteli dagli show o dal budget dei video», dice, «fate quel che dovete fare».

La chiamata non permette di capire quanto G-Eazy e la sua etichetta, la RCA, sapessero che Blueprint era coinvolta in una discussione finalizzata a gonfiare i numeri dello streaming. Sia il rapper che Sony Music (che possiede RCA) hanno rifiutato di commentare la vicenda.

Nella registrazione, Mack afferma di svolgere un ruolo cruciale nel raggiungimento di determinati obiettivi commerciali. Nel caso di G-Eazy, dice a Blueprint che può garantire un aumento del 50% di copie equivalenti vendute – un’unità di misura che combina vendite e stream – rispetto ai normali risultati del rapper. I partecipanti alla call stimano un normale numero di copie equivalenti pari a 20 mila per un EP nella prima settimana d’uscita. «Con noi», dice Mack, «arriverete a 30 mila».

Dice anche che il costo totale dell’operazione sarebbe tra i 30 mila e i 50 mila dollari. Nei documenti ottenuti da Rolling Stone US si dice che l’azienda offre un milione di visualizzazioni su YouTube per 12 mila dollari e pacchetti dal valore analogo su Spotify e Apple Music (YouTube non ha risposto alla richiesta di un commento). I documenti dicono anche che 3BMD ha per le mani più di 100 brani finiti nella Hot 100 di Billboard.

Dalla registrazione non è possibile capire se Blueprint abbia alla fine chiuso l’accordo con Mack e l’azienda non ha voluto commentare la vicenda. Quando gli chiediamo se Blueprint abbia davvero usato i suoi servizi, anche Mack evita di rispondere, dicendo solo che quella chiamata serviva a «instaurare un rapporto» con l’azienda.

Negli Stati Uniti la Federal Communications Commission proibisce la payola, ma non ci sono regole particolari per la manipolazione degli stream. Tuttavia, Blueprint esprime una certa «preoccupazione» per la prospettiva di investire migliaia di dollari per permettere a un’azienda di gonfiare i dati. «Quello che mi preoccupa è questo: come faremo a proteggerci?», chiede un membro di Blueprint durante la call. «L’ultima cosa che voglio è che questa roba diventi così grossa da attirare i federali».

Un associato di Mack rassicura i presenti: «non mettiamo in pericolo nessuno». E aggiunge che «se tutto ciò avesse qualcosa di illegale non sarei qui».

Detto questo, le aziende che promettono stream in cambio di denaro sono sottoposte a un controllo sempre più stringente. Negli ultimi 18 mesi l’International Federation of the Phonographic Industry (IFPI), gruppo non profit globale che rappresenta gli interessi dell’industria discografica, ha vinto diverse cause contro siti che offrono servizi simili in Germania. L’IFPI ha sostenuto con successo che quei siti infrangono una legge tedesca sulla competizione sleale, perché la manipolazione dei numeri crea un’impressione di popolarità artificiale che può ingannare i consumatori.

Negli Stati Uniti non è successo nulla di simile e l’industria discografica deve autoregolarsi. In un comunicato, un portavoce di Spotify ha detto che «la manipolazione degli streaming è un problema di tutta l’industria e Spotify lo prende molto seriamente. I terzi che promettono posizionamenti in playlist o un numero specifico di stream in cambio di denaro violano i nostri termini di servizio e incoraggiano il furto di guadagni legittimi a danno di artisti che lavorano duramente. Abbiamo già intrapreso azioni legali contro queste aziende e fermato mercanti di stream artificiali in mercati di tutto il mondo».

Lo stesso ha dichiarato un rappresentante di Apple Music: «La piattaforma ha un team di persone che si occupano di tracciare e studiare ogni possibile caso di manipolazione. Le sanzioni prevedono la cancellazione dell’account, la rimozione di contenuto e la fine di ogni accordo di distribuzione».

Due persone che hanno lavorato nel mondo delle playlist, però, dicono che le piattaforme di streaming sono impegnate in una caccia che non ha fine: ogni volta che bloccano una persona che viola i termini se ne ritrovano un’altra con un’azienda diversa.

La chiamata tra Mack e il gruppo Blueprint ci aiuta a capire le sfide che hanno di fronte i servizi di streaming quando si tratta di punire chi infrange le regole. Mack fa riferimento esplicito alle azioni messe in campo da Spotify per fermarlo, ma dice anche di «aver scoperto» un modo per aggirare le misure di sicurezza. «Molte piattaforme hanno colpito chi esagerava con queste pratiche», dice. «Ci sono già passato con Spotify. Si sono presi tutte le mie playlist».

Secondo Mack, la piattaforma non è però stata in grado di scoprire chi c’era dietro le playlist confiscate. «I documenti che ho ricevuto non contenevano alcun nome, neanche quello dell’azienda», afferma. In più, assicura a Blueprint che perdere quelle playlist non gli ha impedito di gonfiare i dati degli artisti. «Abbiamo risolto tutto», dice. «Costruisco tra le 40 e le 60 playlist ogni settimana. E continuerò a farlo».

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.