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«Vi dovete spaventare»: siamo stati al funerale di Richard Benson

L’addio al più grande degli ultimi è stato solenne e felliniano. La sua vita è stata un tragicomico teatro dell’assurdo. Il suo funerale è finito con i classici cantati a squarciagola e l'immancabile coro di scuse

Foto press

Il nemico è la vita, diceva sempre Richard Benson. Spesso davanti a un tavolino da bar pieno di cappuccini trangugiati uno dietro l’altro. Un po’ come Lemmy al Rainbow di Los Angeles, se volevi incontrarlo bastava recarsi al De Santis di via Santa Croce in Gerusalemme e sedersi al tavolo con lui. Da lì a finire a casa sua a vedere i giubbotti che customizzava a suon di pistole e mitragliette giocattolo era un attimo. E ogni volta ne uscivi più ricco. Aveva una conoscenza smodata del mondo musicale, poteva passare dal gruppo underground romano che gli aveva fatto recapitare una demo, al vibrato melodico di James Labrie (che notoriamente detestava), finendo con le avventure da groupie di Nicoletta Braschi prima dell’incontro con Begnini.

Se ci riusciva difficile comprendere come potesse un uomo bere otto o nove cappucci nel giro di un paio d’ore, ancora più difficile era scindere l’uomo, colto ed enciclopedico, dall’artista, cialtrone e cazzaro. Forse proprio a causa di quella vita che detestava così tanto più che della sua volontà. Ricordo le parole di un mio grande amico, all’uscita di una delle sue ultime esibizioni. Alla mia titubanza, al mio confessargli quel briciolo di pena che mi aveva attanagliato per un attimo dopo uno show fatto di lancio di oggetti e insulti, lui mi aveva risposto seraficamente: «Ma quale pena? Lui lo fa per noi. Lui si prende tutto il brutto, come se dovesse pagare le nostre colpe. È una figura messianica. Anzi, quando morirà je dovrai pisciare sulla tomba».

È con questi ricordi e dopo un cappuccino-tributo che mi dirigo a dare l’ultimo saluto al più grande degli ultimi. Fuori dalla basilica è un tripudio di scoppiati, di gente devota, tra qualche sommesso «manco il Tevere t’ha voluto», magliette metal e qualche lacrima. Tutto estremamente felliniano. E in effetti, senza averlo vissuto di persona, è difficile comprendere la forza del legame tra Benson e il suo pubblico. Le stesse persone che avevano trascorso due ore a infamarlo e a lanciargli oggetti potenzialmente mortali (indelebile è il ricordo di un pazzo che si era fatto 200 chilometri solo per colpirlo con un portacenere di marmo), alla fine dello show si ritrovavano a osannarlo con applausi scroscianti al grido di «Grazie Richard» o «Richard uno di noi».

Perché Richard era uno di noi. Una figura di una tragicità infinita, che anche in un video disperato in cui chiedeva un aiuto economico, ormai orfano di quasi tutti i denti, era capace di mettere gli occhiali, accendersi una sigaretta e tornare immediatamente quello degli assoli infernali, del Cristo Canaro tour e dei millantati sold out negli stadi di tutto il mondo. Benson non era un pazzo, era assolutamente consapevole del proprio ruolo, della sua figura che solo in un lungo come Roma avrebbe potuto esistere e di cui ha sempre rappresentato tutti gli eccessi e le contraddizioni. Era sensibile e autoironico, oltre che profondamente libero. Noi, come lui, abbiamo sempre saputo che si trattava di un gioco, di un tragicomico teatro dell’assurdo, senza nemmeno doverselo dire.

Foto: Luca Garrò

Fa sorridere vedere fuori dalla chiesa lo stuolo di telecamere, così come le interviste che cercano di raccontare il musicista Benson o gli articoli che citano eventi della sua biografia mai avvenuti. Tutti sappiamo che Marylin Manson non ha tratto ispirazione da Richard, ma oggi piace ricordarlo attraverso luoghi comuni, certificando per vere le cazzate che ci raccontava, quelle che un po’ gli chiedevamo noi, ma che in qualche modo gli servivano per sentirsi vivo e per uscire da un’esistenza drammatica. E in un certo senso, è bello pensare che sia riuscito nella presa per il culo definitiva nei confronti dei grossi media, che lo avevano sempre e solo citato per i polli lanciati sul palco.

La cerimonia è solenne e vede la presenza di un visibilmente scosso Valerio Lundini. Al momento dei ricordi il picco emotivo sale inevitabilmente, ma il magone lascia presto il posto al vero omaggio, quello del suo popolo. L’uscita della bara accompagnata da Madre Tortura cantata a squarciagola in uno dei luoghi più sacri della romanità è sconvolgente. All’uscita, aizzati dalla moglie Ester, iniziano 20 minuti di classici bensoniani gridati all’unisono. «Ultimiiiiiiii!!», «Vi dovete spaventare!!!!», «Venite qua!!!», seguiti dall’immancabile coro di scuse, che Richard chiedeva per poter continuare il proprio show dopo il lancio di oggetti contundenti.

Il vero amore viene dalla sofferenza e per sentire le lacrime degli altri bisogna essere allenati, ripetevi spesso. Tu, Richard, hai rappresentato il meglio anche da questo punto di vista. E, in fin dei conti, con la tua morte sei riuscito nei due grandi obiettivi della tua vita: farci spaventare e sconfiggere il tuo più grande nemico.

Foto: Luca Garrò

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