Vasco Brondi: «Cantare è un lavoro che ha a che fare con lo smarrimento e la libertà» | Rolling Stone Italia
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Vasco Brondi: «Cantare è un lavoro che ha a che fare con lo smarrimento e la libertà»

Due anni dopo la pubblicazione di 'Terra', il cantautore di Le Luci della Centrale Elettrica racconta l’album nel prologo del suo nuovo libro. «Le canzoni devono restare leggere, senza che la forza di gravità pesi su di loro»

Vasco Brondi: «Cantare è un lavoro che ha a che fare con lo smarrimento e la libertà»

Vasco Brondi sul palco dell'ultimo tour de Le luci della centrale elettrica

Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi

Milano 3 giugno 2019. Questo disco e questo diario visti da qui, dal futuro. Sono passati due anni da quando è uscito, quasi quattro da quando ho iniziato a scriverlo. Sospese attorno a Terra ci sono alcune cose che forse riesco a vedere solo io, le illusioni e le disillusioni, tutto quello che credevo di consegnargli come se potesse farsi strada per me. Che mi portasse incontri, che mi liberasse di qualcosa che ci ho cantato dentro. Ma è ancora tutto al suo posto, e in continuo cambiamento.

Scrivendo le canzoni di un disco ho questa sensazione di liberarmi di qualcosa, di lasciare uscire storie e sensazioni, che non tornino più indietro. Invece poi mi trovo a cantarle ogni sera ma insieme agli altri, al chiuso, all’aperto, nei club, nei teatri, nei festival. Dal vivo, tutti in coro, le mie miserie e i miei amori. Le mie gioie e i dolori, tutto amplificato, con microfoni e impianti e grande distribuzione sulle piattaforme digitali e su quelle analogiche, sugli scaffali degli ultimi negozi di dischi. E alla fine non si è risolto niente ma varchiamo quella sottile frontiera di pelle che ci dà l’illusione della separatezza. Anche Shantideva nel settimo secolo in una preghiera scriveva: “Possano i viandanti inquieti che hanno perduto la strada incontrare compagni di viaggio e senza alcun timore di ladri o tigri possa il loro cammino essere facile, senza alcuna fatica”. Non gli augura che possano trovare la strada o trovare la meta, gli augura di trovare compagnia e proseguire.

Terra è stato uno sforzo immane, che è sempre poco elegante da dire. Mi dicevo: “Questo è l’ultimo”; poi mi dicevo: “Questo sembra il primo”; poi mi dicevo “È solo un disco, nel prossimo farò altre scelte. Questo va così”. Poi esce e ti trovi a parlare per promuoverlo, e a stare zitto per non fare danni. Guardi tutte assieme le promesse infrante di un disco e le sorprese inaspettate che ti porta. Puoi dire che è il disco più bello che hai mai fatto, il più difficile, il più travagliato nello scriverlo, nel registrarlo, nel portarlo in tour, il più gioioso da cantare, quello che ti ha reso più felice. Ogni volta come il prossimo o come quello di prima.

Alla fine le canzoni devono restare leggere, senza che la forza di gravità pesi su di loro. E infatti a volte le canzoni non invecchiano. Le canzoni non sono costantemente attratte verso la terra dove finiremo, come lo sono i nostri corpi i cui tessuti, giorno dopo giorno, sottoposti all’attrazione terrestre, cedono. Le canzoni non cedono, subiscono una forza opposta all’attrazione terrestre che è l’attrazione celeste, quella che spinge gli alpinisti a fare imprese inutili e rischiosissime come per ricongiungersi a qualcosa che è là in alto da qualche parte. Uno sforzo che si può fare solo per cercare di tornare a casa, magari dalla Russia a piedi fino a Mantova, come ha fatto mio zio. Da qualche parte c’è una tomba dedicata a lui perché avevano ritrovato la sua giacca dell’esercito ma lui l’aveva semplicemente sostituita con una più calda trovata sul cadavere di un altro soldato. E poi ha continuato a camminare e adesso ha due tombe su questa terra.

Terra ha aperto per me uno spazio di riflessione sullo strano lavoro di musicista. Chi cerca di corteggiare il mondo intero con delle canzoni, chi cerca di minacciare il mondo intero con delle canzoni. Per richiedere formalmente agli altri un po’ di attenzione o per tenerli lontani. Cantando sui palchi per differenziarti, per isolarti o per darti. Dopo questo disco ho deciso di fermarmi per un po’ e adesso che ci penso sono sei mesi che non tocco una chitarra, dall’ultimo concerto. Ho chiuso questo capitolo delle Luci della centrale elettrica per non aprire nient’altro e fare cose che per ora restano segrete.

Mi ricordo subito dopo l’uscita del disco come un fiume ancora in piena e poi alla fine del tour vuoto, senza confini. Quando succede ti accorgi che la pelle non serve, che tutto entra nel campo della consapevolezza, tutto esce attraverso la voce. Una marea di cazzate, di errori, di gestione perfetta. Meditare prima dopo e magari anche durante. Bere di meno o non bere almeno per questa volta. Sradicato come sempre, libero di scegliere sempre come una maledizione. “I monasteri con regole molto restrittive sono luoghi molto felici”, ha detto il monaco Bhante Sujiva andando a parlare nel carcere di Bollate. “Questo non è un lavoro”, dice Giorgio Canali, che si vanta di non avere mai lavorato un giorno in vita sua, e forse è vero. Forse questa è comunque la cosa più utile che posso fare per gli altri, cantare, scrivere canzoni, lasciare uscire le parole e poi metterle a martellate dentro la canzone quando la metrica non si incastra, quando non c’è la rima ma la frase giusta è solo quella. E questo libro è il diario di quel disco e un diario di viaggio. Di viaggi ce ne sono stati altri e altre esperienze che sto facendo, e mi chiedo se le sto facendo per poi metterle dentro le nuove canzoni, se cioè ogni cosa che faccio non la decido io ma mi serve per poi scrivere delle canzoni, se quando ascolto sto ascoltando solo se le parole che dici suonano abbastanza bene per entrare in una canzone.

Poi c’è una corrente segreta, un campo magnetico che riesco appena a percepire e che mi lega a chi mi ascolta anche in questo momento. C’è questa energia sottile che lega chi crea qualcosa con le persone che amano quella cosa che ha creato, e tu li pensi e loro ti pensano e siamo uniti anche senza volerlo. Ti danno un sostegno, ti fanno continuare a scrivere o a cantare o a viaggiare per poi restituire come puoi quello che scopri, ti mandano avanti in avanscoperta, ti proteggono le spalle mentre cerchi e lo fai anche per loro e poi gli mandi dei segni e poi se torni vivo o se non ti perdi poi torni indietro e glielo racconti o gli canti qualcosa. Come i canarini usati dai minatori per capire se c’era troppo gas nella miniera o se si poteva continuare. Cantare è un lavoro che ha a che fare con l’incertezza e con la bellezza, l’utilità delle cose inutili, lo smarrimento e la libertà. In questo diario manca il finale, finisce quando inizia la vita del disco, la realtà, la bella realtà, la dura realtà, l’unica che c’è.

Terra ha avuto un’accoglienza stupenda o un’accoglienza più tiepida di quello che poteva avere o migliore, durerà, non durerà. Il bello di questo diario è che finisce prima che inizi la vita vera. Quella che esce dal tuo controllo, credi di essere tu a costruirla invece è lei che costruisce te. Le infinite variabili, gli scontri con la materia a cui siamo soggetti, la danza della realtà.

Tratto da ‘Terra. Diario di lavorazione o la gloriosa autostrada dei ripensamenti’ di Vasco Brondi – Le luci della centrale elettrica (La nave di Teseo, pp. 198, 10 euro)