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Un viaggio da Asbury Park a Muscle Shoals: Nicole Atkins racconta ‘Italian Ice’

La rocker americana spiega le storie dietro al suo nuovo album: la potenza della musica, tour rocamboleschi, la santa patrona dei malati di mente, influencer chiuse in una casa degli specchi, l’uragano Sandy, sogni e incubi

Foto: Barbara FG

C’è una scena pazzesca alla fine del nuovo disco di Nicole Atkins. Lei è sul lungomare di Asbury Park, quello della cartomante Madame Marie, dello Stone Pony e delle scorribande della cricca di Bruce Springsteen. È lì in equilibrio instabile e grida in faccia all’uragano Sandy che non morirà, non quel giorno. Non c’è un filo di disperazione nella voce. C’è invece un tono di sfida e l’euforia tipica di chi ha qualcosa da festeggiare.

È una scena immaginaria, ma ha un fondo di verità. Nel 2012 Sandy ha colpito la casa di Nicole Atkins a Neptune City, a pochi minuti di auto da Asbury Park, portando via chitarre, dischi, oggetti personali. Da allora molte cose sono cambiate. Cresciuta sul Jersey Shore, oggi la cantante vive a Nashville. Se nel suo penultimo album Goodbye Rhonda Lee diceva addio al suo alter ego e a molte cattive abitudini, nel nuovo Italian Ice è animata da uno spirito positivo. È un disco assieme profondo e leggero, suonato benissimo, pieno di storie buffe e drammatiche, un viaggio nell’immaginazione, nei sogni e nell’eclettica collezione di dischi della cantante.

Emersa nel 2007 come grande speranza del pop americano con uno stile noir parecchio rétro e un po’ dark, Nicole Atkins ha attraversato un pezzo di storia della musica in cerca di un’identità solida passando dal rock-blues al pop sperimentale. L’ha trovata, forse, in quest’album registrato al leggendario Muscle Shoals Sound Studio, in Alabama, con un cast di grandi musicisti. Dentro ci sono le sue passioni, il ricordo della musica che passavano le radio AM quand’era piccola, rock e country-soul, un pizzico di Mamas and Papas e persino di Mina. C’è soprattutto quel suo modo di cantare morbido, virtuoso e appassionato, da vocalist d’altri tempi, dotata però d’uno spirito rock’n’roll.

Italian Ice è anche un tributo al potere della musica e ai sogni di chi porta le proprie canzoni in giro per il mondo, anche con fatica. Lei ne sa qualcosa. È stata in tour con Nick Cave, Eels, Mercury Rev, ha ricervuto l’endorsement di Springsteen, è amata dalla critica, ma resta una cantautrice di culto. Di recente ha aperto un profilo Patreon in cui condivide coi fan canzoni e performance inedite, foto, appunti, piccole opere d’arte. Le abbiamo chiesto di raccontarci il suo nuovo album, canzone per canzone.

“Am Gold”

L’ho scritta a Asbury Park poco prima di trasferirmi a Nashville, più di cinque anni fa. Avevo la melodia, ma non il testo. Sapevo che sarebbe stata la prima dell’album: non avevo idea di che cosa parlasse, ma era il tipo di canzone che apre un disco. Il giorno prima dell’ultima session di registrazione delle parti vocali mi sono addormentata guardando le notizie in tv. Era l’anno scorso e le notizie erano pessime. Mi sono svegliata nel cuore della notte, in tv c’erano opinionisti che litigavano e mi sono venute le parole del ritornello, come in un sogno lucido: “We’re stranded in the garbage of Eden (gioco di parole fra ‘garbage’, spazzatura, e ‘garden of Eden’, il paradiso terrestre, ndt), we’re starving what we should’ve been feeding”. A quel punto ho capito la direzione in cui dovevo andare. Siccome questo è un disco sul fatto di sentirmi meglio, dovevo trovare una qualche cura. E le cure migliori per me sono sempre state il lungomare e le radio AM che ascoltavo sull’auto di mia madre. Semplice.

“Mind Eraser”

Appena arrivata a Nashville, una delle poche persone che conoscevo era Carl Broehmal dei My Morning Jacket e perciò ci siamo incontrati per scrivere qualcosa. Io avevo da parte questo pezzo che immaginavo melodrammatico, alla Roy Orbison. E invece Carl ci ha messo sotto degli accordi alla Radiohead, io ho iniziato a cantarci sopra liberamente ed è nata questa canzone un po’ ‘fuori’ che mi ricorda tante cose diverse come i Beatles, i Blur, la Beta Band. In quel periodo tanto per cambiare facevo sogni incredibili e alla fine il testo l’ho scritto su quest’argomento. Parlo di sogni talmente intensi che, anche se sono brutti, finiscono per essere eccitanti perché non c’è niente di simile nella realtà, per lo meno fino a quando non ti riaddormenti. Sì, per quanto mi riguarda a volte il confine tra sogno e realtà è decisamente sfumato.

“Domino”

Era estate, ero in tour con la band e ascoltavamo un sacco di electro francese. È musica perfetta per guidare per ore e ore di notte. Una volta tornata a Nashville, l’ho fatta ascoltare al mio amico Dex Green col quale stavo lavorando a un altro mio progetto, un duo con Jim Sclavunos dei Bad Seeds. Anche Dex si è intrippato e ci siamo detti che avremmo dovuto scrivere qualcosa in quello stile, senza allontanarmi troppo dalle mie cose. Qualche giorno dopo ha mandato una traccia di batteria e tastiere e a quel punto abbiamo finito la canzone piuttosto velocemente.

“Forever”

Ho cantato un paio di pezzi alla festa per il 75° compleanno di Spooner Oldham allo Shoals Theater. Non avevo mai incontrato prima né Spooner, né David Hood, né gli altri grandi musicisti degli studi Muscle Shoals. Durante una pausa mi sono fatta una sigaretta nel vicolo con il chitarrista Kelvin Holly, uno che ha suonato con Little Richard e Neil Young. Mi ha chiesto come ho conosciuto mio marito, che è un fonico scozzese. Gli ho spiegato che era il mio tour manager e che è poi siamo diventati amici e che sapevo che c’era qualcosa di più perché aveva l’odore delle cose che durano per sempre. «Beh, questa è una canzone», ha detto Kelvin.

“Captain”

L’ho scritta poco prima delle session. Continuavo a pensare al tipo di persona che si prende cura degli altri fino a dimenticarsi di prendersi cura di sé. È il mio modo per dire: «Ora puoi riposarti, ci penso io».

“Never Going Home Again”

Volevo scrivere un pezzo che ricordasse i Mamas and Papas, mi piaceva l’idea di avere nel disco una cosa da intonare in armonia con i cantanti che amo. Volevo che fosse una road song divertente, così ho iniziato a scrivere delle mie avventure in tour e Jim Sclavunos mi ha raccontato di quando è stato stato bandito a vita dal Giappone e della volta in cui ha visto un ufo a Denton, Texas, dopo un concerto coi Panther Burns. Abbiamo unito le nostre storie ed è venuto fuori il pezzo. Lo canto con Seth Avett, Erin Rae e John Paul White. È divertente.

“St. Dymphna”

Quando ho aperto per i Mercury Rev nella cattedrale di St. Nicholas a Newcastle ho registrato una nota vocale sul mio telefono. All’inizio sembrava un pezzo degli Smiths, poi ho capito che ci stava bene un’atmosfera alla Louis Prima. È un convulso e italianissimo appello al cielo dopo una sbornia, è la richiesta di non morire o andare fuori di testa. Ho fatto qualche ricerca su San Nicola e non mi ispirava, così ho pensato a un santo più adatto. Mi sono ricordata del bar a St. Mark’s Place in cui andavamo io e la mia vecchia band, i Black Sea. Stavamo vivendo tutti quanti un periodaccio. Il posto si chiamava St. Dymphna’s. Ho cercato la santa e ho scoperto che Santa Dinfna è la patrona dei malati di mente e dei bambini perduti. Tombola!

“Far From Home”

Per una volta volevo scrivere una di quelle canzoni che narrano una storia. Quando eravamo bambini, mio padre ci raccontava storielle molto divertenti e politicamente scorrette su un ragazzino che in spiaggia disobbedisce alla regola di non parlare con gli sconosciuti e finisce in un buco di cantina in compagnia di un ragno di tre metri. Alla fine viene salvato dal padre, ma «picchiato come un mulo preso in prestito» per avere disobbedito. Mi sono sempre piaciute queste storie. Questa canzone è la mia versione. Parla di una narcisista, immaginate una influencer di qualche social media o un personaggio del genere. Viene attirata sul lungomare, portata alla casa dei divertimenti e chiusa per sempre nella casa degli specchi, così da avere occhi infiniti che la guardano – i più adoranti, i suoi.

“A Road to Nowhere”

Mi sono innamorata di questa canzone quando ho sentito la versione pazzesca di Judy Henske per il produttore Jack Nitzsche. L’ho cantata alla Music Hall di Williamsburg pensando fosse sua. Poi qualcuno s’è avvicinato e mi ha detto: «Bella la cover di Carole King». Non avevo idea che l’avesse scritta lei. Sono andata ad ascoltare la sua versione su YouTube ed è incredibile. La faccio da un bel po’ di tempo e quando la canto mi sembra di viverci dentro.

“These Old Roses”

Ho incontrato Britt Daniel degli Spoon a uno show di beneficenza a Brooklyn. Ho sempre amato la sua musica e la sua scrittura, così gli ho chiesto di scrivere un pezzo con me. Ci siamo visti e abbiamo parlato dei Walker Brothers e della musica italiana degli anni ’60. Un pomeriggio abbiamo ascoltato questa melodia che avevo registrato sul mio telefono. La frase “Queste vecchie rose hanno visto giorni migliori” l’avevo scritta su un taccuino quando, in tour, mi avevano lasciato delle rose morte in camerino. Quel verso aveva qualcosa di drammatico ed era perfetto per la canzone che stavo scrivendo.

“In the Splinters”

Era un pezzo che avevo questa melodia. Volevo che il disco si chiudesse con una canzone da intonare con gli amici a fine serata, con una birra in mano, una cosa tipo “non voglio andare a casa”. La melodia era piena di vita e di speranza, ma aveva un tocco alla Broadway e quindi non l’avevo presa in considerazione per il disco. Poi ho sentito cantare Hamilton Leithauser. Sembrava tipo Frank Sinatra in versione pirata. Ho capito che era la persona perfetta per aiutarmi a finire il pezzo. Sentivo che funzionava interpretato da lui e questa cosa mi ha fatto comprendere come avrei dovuto cantarlo. Parla dell’uragano Sandy e di quel che ho imparato vivendo sul Jersey Shore. Non l’ho capito subito, ma un evento catastrofico come quello cambia il paesaggio e finisce per cambiare le persone, spingendole a pensare che è tutto finito. E invece il tempo passa e tu sei ancora lì, in piedi. Sei cambiata, sì, ma sei ancora in piedi e sai che le cose andranno bene.

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