Tutti i dischi dei Suede, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Tutti i dischi dei Suede, dal peggiore al migliore

La band di Brett Anderson esordiva con un singolo esattamente trent’anni fa, contribuendo ad aprire una nuova stagione per il pop britannico con un mix di vitalismo, droghe, sesso, angoscia. Questa è la classifica dei loro album: meglio l'esordio o 'Dog Man Star'?

Tutti i dischi dei Suede, dal peggiore al migliore

Suede, 1994

Foto: Gie Knaeps/Getty Images

Nella primavera del 1992 il rock indipendente made in UK si trova in una situazione di stallo. Se l’enorme successo di Nevermind ha diretto l’attenzione del grande pubblico sulla scena statunitense, e su Seattle in particolare, in Gran Bretagna ci si domanda se gli Stone Roses saranno in grado di dare un seguito al loro clamoroso album d’esordio e se la Creation di Alan McGee e la Factory di Tony Wilson riusciranno a sopravvivere alle loro difficoltà finanziarie. A mancare è l’entusiasmo per le nuove band e le nuove scene.

Il desiderio di rilanciare la musica britannica passa anche attraverso la stampa di casa, tradizionale alleata delle case discografiche nello spingere i gruppi nel momento del loro debutto. Spesso forzando un po’ la mano, come accade in aprile, quando il Melody Maker scrive che i Suede sono il miglior gruppo britannico. Peccato che non abbiano ancora pubblicato nemmeno un singolo. L’esordio a 45 giri arriva solo il mese dopo, l’11 maggio, esattamente trent’anni fa. Si intitola The Drowners e vale alla band la copertina del New Musical Express.

È l’inizio di una storia che rappresenta il preludio al boom del brit pop, di cui i Suede (nome ispirato a Suedehead, il primo singolo da solista di Morrissey) saranno una delle band di spicco, pur in maniera decisamente atipica. Basti pensare a un frontman come Brett Anderson, forse l’elemento della storia Suede che più li differenzia rispetto alle band loro contemporanee, formate da musicisti che non sembrano certo nati per essere superstar. I Gallagher si vantavano del loro passato da ladri di autoradio, Damon Albarn è il figo della porta accanto, Jarvis Cocker l’ex sfigato che ce l’ha fatta e persino le ragazze, su tutte Justine Frischmann degli Elastica (già fidanzata di Brett e chitarrista della prima formazione dei Suede), erano più maschiacci che dive. Brett Anderson invece non è mai sembrato uno normale. Nonostante sia figlio di un tassista e venga da Haywards Heath, posto anonimo se ce n’è uno. È qui che incontra il bassista Mat Osman, con cui dà vita al primo nucleo della formazione assieme alla già citata Justine Frischmann, all’altro chitarrista Bernard Butler e al batterista Simon Gilbert.

Sono otto gli album in studio finora pubblicati, che abbiamo messo in ordine dal peggiore al migliore.

8“A New Morning” (2002)

È lo stesso Brett Anderson a confermare che quest’album merita di occupare l’ultimo posto della lista: nel 2016, durante un’intervista rilasciata a Vice, dice che i Suede non avrebbero mai dovuto pubblicarlo. Prodotto da Stephen Street, storico collaboratore di Smiths e Blur, il disco è frutto di un viaggio in sette diversi studi di registrazione, intrapreso da una band che, dieci anni dopo il suo esordio, si mostra decisamente in crisi di idee. Ci sono anche difficoltà personali: il tastierista Neil Codling ha lasciato, vittima della sindrome da affaticamento cronico, sostituito da Alex Lee, già membro degli Strangelove. Se non altro lo stato di salute generale della band sembra essere migliorato: al momento dell’uscita, Anderson spiega al New Musical Express che questo è il primo album dei Suede non influenzato dall’uso di droghe. «È il giorno della marmotta dei Suede», scrive però l’impietoso Andy Gill sull’Independent per sottolineare l’assenza di novità. Sembrano non crederci neanche i discografici, che decidono che non è il caso di far uscire l’album anche negli Stati Uniti. Lo scioglimento dell’anno successivo arriva quasi come una liberazione per i membri della band, desiderosi di fare nuove esperienze. Sette più tardi torneranno in pista per la seconda fase della carriera dei Suede.

7“The Blue Hour” (2018)

Prodotto da Alan Moulder, già collaboratore di U2, Smashing Pumpkins e Nine Inch Nails, l’ultimo album dei Suede in ordine cronologico è un lavoro ambizioso ma scarsamente a fuoco. Le canzoni, pur interessanti, sono penalizzate da arrangiamenti spesso ridondanti, e anche l’ambientazione rurale non convince e sa di artificioso. La band in compenso lancia un messaggio chiaro: non siamo qui per fare revival. Nelle scalette del tour che segue alla sua pubblicazione, infatti, i brani di questo disco fanno la parte del leone.

6“Night Thoughts” (2016)

L’album esce in accoppiata con un film diretto dal fotografo Roger Sargent, che viene proiettato durante i concerti della band mentre questa ne esegue per intero la scaletta. Il lavoro, spiega il regista, si propone di indagare il modo in cui la psiche umana affronta elementi come l’amore, la morte, l’angoscia e la disperazione. È l’album più vicino a una rock opera tra quelli prodotti dai Suede, probabilmente anche il meno immediato, privo com’è di canzoni capaci di colpire al primo ascolto. Ascoltandolo per intero e con il supporto delle immagini è però inevitabile rimanere coinvolti dalle forti emozioni che questi dodici brani si propongono di raccontare.

5“Bloodsports” (2013)

L’album che apre la seconda fase della carriera dei Suede esce tre anni dopo la reunion live della band. Nel periodo dello scioglimento è arrivata dapprima la sorpresa della collaborazione tra Brett Anderson e Bernard Butler, che assieme al bassista Nathan Fisher e al batterista Mako Sakamoto hanno dato vita ai Tears, autori di un unico e non imprescindibile album (Here Come The Tears) uscito nel 2005. Poi, tra il 2007 e il 2011, il cantante ha pubblicato ben quattro album solisti, anch’essi non all’altezza della storia Suede. Neil Codling torna alle tastiere e Ed Buller alla produzione per un album sorprendentemente incisivo. Barriers e It Starts and Ends with You potrebbero tranquillamente stare nella scaletta dei primi album dei Suede, ma è tutto il disco («Dedicato all’infinito e carnale gioco dell’amore», così spiega Brett Anderson) a guadagnarsi il titolo di miglior album della fase 2 della band.

4“Head Music” (1999)

Ed Buller, produttore dei primi tre album, lascia i controlli a Steve Osborne del team Perfecto, un produttore dance per un suono meno chitarristico, “filtrato” da un’elettronica non invadente. Il quarto album della carriera dei Suede vede l’ingresso in pianta stabile nella formazione di Neil Codling, che dopo aver iniziato a frequentare la band durante le registrazioni di Coming Up viene accolto in quanto, dice Brett Anderson, «è una persona che potrebbe stare in una canzone dei Suede». Parole che fanno capire che la band sta cercando di creare un mondo a sé, come confermato dallo stesso Anderson in un’intervista rilasciata a The Face, in cui spiega che la copertina (opera di Peter Saville, storico art director della Factory) «rappresenta una Suedegirl e uno Suedeboy le cui menti sono connesse come quelle dei fan dei Suede». Al di là della cornice, c’è anche la sostanza di canzoni come Everything Will Flow, che non fa rimpiangere i momenti migliori degli album precedenti.

3“Dog Man Star” (1994)

In una precedente versione di questa lista, Dog Man Star stava al primo posto e l’album d’esordio dei Suede al terzo. Questo per dire che i primi tre dischi della band meritano tutti di essere considerati nel novero dei migliori prodotti del rock britannico anni ’90. Nella versione definitiva della lista, quest’album è sceso al terzo posto perché si è preferito premiare l’immediatezza dei due album che lo precedono, pieni di canzoni che ancora oggi si fanno ricordare. Dog Man Star è più ambizioso degli altri due e, se proprio si vuole trovargli un difetto, paga a tratti un’eccessiva magniloquenza. Ma la dedica a Marlon Brando di The Wild Ones, quella a James Dean di Daddy’s Speeding e l’inno New Generation fanno sorgere uno dei grandi “what if?” della storia del rock inglese: cosa sarebbe successo se Bernard Butler non avesse lasciato la band al termine delle sedute di registrazione? Per sostituirlo in vista dell’imminente tour, i Suede pubblicano un annuncio anonimo sui principali giornali musicali: «Band influenzata da Cocteau Twins, Beatles e Suede cerca un chitarrista». Arriverà il diciassettenne Richard Oakes e la storia continuerà.

2“Coming Up” (1996)

In tutto il Regno Unito non ci sono altri under 20 sotto pressione come Richard Oakes. Ha dovuto sostituire Bernard Butler per il tour di Dog Man Star e le cose sono andate bene. Poi ovviamente ha dovuto sostituirlo anche in studio e soprattutto nella scrittura delle canzoni. E sorprendentemente le cose sono andate ancora meglio. Coming Up è il disco con cui i Suede dicono forte e chiaro che la loro storia continua, anche se sarà una storia diversa. Fin dalla copertina, opera di Peter Saville e Nick Knight, con i suoi colori sfavillanti al posto di quelli opachi dei due album precedenti. L’album finisce al numero uno della classifica di vendita britannica, con ben cinque singoli nella top ten. Brett Anderson l’aveva detto: il nuovo album dovrà suonare come un greatest hits, e così è stato. A partire dal primo singolo Trash, passando attraverso il manifesto di The Beautiful Ones e il “cortometraggio” di Picnic by the Motorway, i Suede si confermano anche una grande band da singoli, sui quali non di rado piazzano ottime canzoni anche nei lati B. Come testimoniato da Sci-Fi Lullabies (1997), raccolta che include episodi da non perdere come The Living Dead e My Dark Star (uscite come retro di Stay Together, altro gioiello pubblicato solamente come singolo) e la My Insatiable One entrata per breve tempo a far parte del repertorio live di Morrissey.

1“Suede” (1993)

La stampa britannica li lancia come i nuovi Smiths, ma l’album d’esordio dei Suede sembra venire più dagli anni ’70 di David Bowie e Mick Ronson che dagli ’80 di Morrissey e Marr. Ma sarebbe riduttivo fermarsi al sapore glam di canzoni che hanno in sé un dna assai variegato. Dal punk a Prince, tanto che Brett Anderson cita i Crass tra i suoi gruppi preferiti e il musicista di Minneapolis come fonte di ispirazione del suo modo di cantare. Il New Musical Express prende due piccioni con una fava e organizza un’intervista in cui il cantante incontra David Bowie, in procinto di pubblicare Black Tie White Noise. Chiacchierando con uno dei suoi idoli, Anderson spiega alcuni dei capisaldi della sua poetica. «Non voglio raccontare che un ragazzo incontra una ragazza. A volte scrivo da un punto di vista gay perché ci sono certi segmenti della società che hanno trovato pochissimo spazio nella pop music». Sulla sessualità del cantante si sprecano fiumi di inchiostro, alimentati anche dal suo gusto per le dichiarazioni a effetto. «Sono un bisessuale che non ha ancora avuto la sua esperienza omosessuale», dice al Melody Maker. Ma poi, in una successiva intervista a The Face, precisa: «Molte delle cose che faccio, le faccio in teoria. In questo sono un prodotto degli anni ’90, anni in cui molte esperienze sono solo mentali. E i miei testi sono un’espressione di sessualità, quale sia questa sessualità è però irrilevante». Singoli da ko come Metal Mickey e Animal Nitrate mandano l’album al numero uno della classifica britannica, mentre brani struggenti come Sleeping Pills e The Next Life lo fanno entrare a pieno diritto tra i migliori debutti degli anni ’90.

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