Tutti gli album di Cesare Cremonini, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Tutti gli album di Cesare Cremonini, dal peggiore al migliore

Dopo il successo dei Lùnapop, il cantautore ha ricostruito la sua carriera riuscendo a mettere a punto un pop fascinoso, estraneo alle mode. I singoli l'hanno sempre premiato, ma qual è il disco più riuscito?

Tutti gli album di Cesare Cremonini, dal peggiore al migliore

Cesare Cremonini

Foto: Pierpaolo Ferrari. Style Francesca Piovano. Maglia del Bologna F.C. riprodotta da La Sartoria Sportiva di Calcio Retrò

La storia artistica di Cesare Cremonini somiglia a un romanzo di formazione. Ha avuto tutto e subito nel 2000, ad appena 20 anni da debuttante, col pop dei Lùnapop, fra dischi di diamante, 50 Special e Festivalbar. Poi l’ha perso, ha scontato quelle canzoni come un peccato originale con pregiudizi da cui ha provato a svincolarsi con la musica ma a fatica, complice una serie di LP più impopolari, a metà fra gli slanci adolescenziali e una maturità per cui magari semplicemente non era ancora il momento. Infine, il nuovo successo con una consapevolezza diversa, adulta, e un pop in cui il suo talento compositivo ha trovato una dimensione personale, uno stile fascinoso, estraneo alle mode. Senza più nostalgie per il passato, altroché.

E oggi che riempie gli stadi, dove ha un tour in programma per il 2022, è una delle popstar per eccellenza della nostra musica, di quelle trasversali che un sorriso (o proprio un apprezzamento) lo strappano a chiunque. Poi, se è vero che coi singoli se l’è sempre cavata bene – da Qualcosa di grande a Vieni a vedere perché e Marmellata #25, passando per la rinascita di La nuova stella di Brodway, Logico #1, Buon viaggio – è nella complessità dei dischi, negli scarti di tecnica e ricerca fra l’uno e l’altro, che si vede davvero il suo percorso fatto di discese, salite, discese.

Però: il consenso degli ascoltatori è sempre coinciso coi lavori migliori? Li abbiamo messi in classifica per capirlo.

7. “Bagus” (2002)

L’unico album di transizione della carriera di Cremonini è anche – un po’ di conseguenza – il suo più debole, nonché il primo a proprio nome. Uscito dopo la fine dei Lùnapop, ma di fatto scritto da un autore ancora poco più che ventenne, che insomma odora di teen spirit, vorrebbe smarcarsi da …Squérez? con una formula più complessa e matura, non per forza immediata, in cui entrano accenni di psichedelia, rock, Lennon e Mercury. Si cerca il suono adulto, d’autore; però più spesso ci si perde in rigurgiti del passato prossimo (Mary seduta in un pub), in un mood un po’ piacione ma senza killer instinct (Gli uomini e le donne sono uguali, Latin lover) o dentro veri macigni (Due stelle in cielo, E invece sei tu) che testimoniano una oggettiva crescita tecnica però difficile da tradurre in brani efficaci. Eppure, nonostante ciò, ci sono Vieni a vedere perché e soprattutto Padremadre, una sorta di brit pop in cui un figlio canta la nostalgia di essere cresciuto troppo in fretta (e senza di loro) ai genitori. Quasi un manifesto, tra l’altro, dello spirito che poi mina il lieto fine dell’album.

6. “Il primo bacio sulla Luna” (2008)

A un certo punto, è stato come se Cremonini avesse voluto smarcarsi a tutti i costi dai pregiudizi degli inizi – cantante per ragazzine, autore di musica leggera senza spessore e senza talento – dimostrando di aver studiato, di essere un cantautore, bravo tecnicamente. Non so quanto ciò fosse voluto, ma Il primo bacio sulla Luna sembra risentire parecchio di questa specie di complesso, con arrangiamenti orchestrali abbastanza barocchi, strutture complicate, contorte, che soffrono di nuovo il limite di non accontentare nessuno, né gli ascoltatori in cerca di pop cristallino né gli appassionati esigenti. Non era pronto, forse. E non a caso, sarà uno dei suoi lavori meno venduti. Molto bene l’arioso classico Le sei e ventisei (una Disperato erotico stomp con meno autoerotismo e più malinconia), come le simil-suite Figlio di un re e la title track; ma nella loro austerità L’altra metà e Chiusi in un miracolo sembrano pretenziose, noiose, mentre Dicono di me e La ricetta (… per curare un uomo solo) con mille campanelli passano per eccesso di maniera. In ogni caso, la maturazione tecnica e la ricerca di un suono non facile lo renderanno paradossalmente il pass ideale per liberare davvero il suo autore dai pregiudizi. Un passaggio difficile, insomma, ma necessario.

5. “Maggese” (2005)

A tre anni dal debutto solista il passo in avanti è evidente, lasciandosi dietro gli echi dei Lùnapop con un album che definisce un pop di classe un po’ vintage, che guarda ai Beatles – e infatti è stato registrato anche ad Abbey Road – e in parte ai cantautori tradizionali. Viene da pensare a una prova generale della formula che lo avrebbe benedetto dal 2012 in poi, a fuoco e solida rispetto al precedente Bagus e paradossalmente più cristallina del successivo, iper-complesso Il primo bacio sulla Luna. Il limite è solo la costanza: la title track – ovvero la Penny Lane nostrana – è una ballata ambiziosa e circolare col ritornello giusto, la malinconia anni ’60 riattualizzata di Marmellata #25 con piano e Hammond segna un punto fermo del pop italiano del Duemila, Sardegna si ispira a De Gregori, Le tue parole fanno male a Mina e Momento silenzioso sgrezza gli episodi piano solo del disco prima; ma dall’altro lato, pezzi dimenticabili come Gongi-Boy #2 (pure riciclata), Quando non sai e Ancora un po’ rasentano un’ispirazione ai minimi storici, e impediscono al disco di lasciare il segno.

4. “La teoria dei colori” (2012)

E poi, quando qualcuno iniziava a non crederci neanche più, la svolta: Il primo bacio sulla Luna – pur nella sua relativa impopolarità – libera Cremonini dei pregiudizi da parte di una fetta di ascoltatori più smaliziati, il singolo Mondo (2010) lo rilancia nelle radio con un tormentone estivo dieci anni dopo Qualcosa di grande e nel 2012, dopo la prova generale, è tempo di assestare per sempre la quadra di un nuovo pop elegante e trasversale, ispirato, malinconico e con un lessico da cantautore, più vicino a Dalla, Morrissey e i Coldplay che ai Fab Four e ai Queen. La maturazione tecnica, insomma, si porta finalmente dietro quella stilistica. La ricerca si traduce in immediatezza ed è il suo più grande successo da …Squérez?, con ballate da stadio non banali e piene di lustrini come La nuova stella di Brodway e divertissement tipo Una come te e I love you, oltre che forte della dalliana Il comico (sai che risate) e del pop-rock delle sbarazzine Stupido a chi? e Non ti amo più. Come se, dopo decine di tentativi, l’artista bolognese avesse ritrovato il filo di un pop proprio (e il consenso della gente), l’amalgama giusta fra piacere a sé e agli altri. Così, La teoria dei colori rappresenta l’album del rilancio, quello di una nuova consapevolezza. Che la semplicità, a volte, è una conquista.

3. “Logico” (2014)

Sostanzialmente, un La teoria dei colori rivisto e corretto, più ricco nel sound ed elaborato nelle melodie. Se i riferimenti restano gli stessi infatti, e Logico #1 cala l’asso pigliatutto a metà fra i Coldplay colorati e una edm stavolta educata e posata, diventando di gran lunga il pezzo dell’estate del 2014, quello che da solo vale il platino all’album, tutto intorno c’è un disco in ammiccamento come mai prima all’indie pop, senza impoverirsi nel lessico e nel sound. Il quale, anzi, sopra testi che raccontano storie d’amore e languori universali, flirta bene con l’elettronica nell’altra hit Greygoose – storia di una notte di passione e vodka, su un vortice di sintetizzatori – e in Io e Anna, che riprende la mitologica Anna e Marco in un futuro romantico e al tempo stesso triste, da crisi di coppia. Anche se poi, alla fine, sono i capitoli che non finiscono in radio a tenere su l’opera in questa classifica, là dove prima spesso tradivano e qui sono invece piccoli gioielli, come la levigata oasisiana Fare e disfare, il simil-funk minimale di Cos’hai nella testa?, la commedia d’autore John Wayne e il carillon di malinconia di Quando sarò milionario. Anche i gregari, stavolta, fanno la propria parte; e il nuovo corso di Cremonini si afferma del tutto.

2. “…Squérez?” (1999)

Ok, per molti versi strettamente tecnici ...Squérez? è inferiore già a La teoria dei colori, giovanile e giovanilistico com’è, persino naïf. Tant’è che non fu mai preso sul serio dagli ascoltatori un minimo smaliziati, che bollavano la band di cui Cremonini era il cervello come un fenomeno sociale musicalmente irrilevante, da ragazzini. Ma a parte che l’album in questione è un padre dell’it-pop, se si tiene conto del numero di hit che contiene, di quante di queste siano rimaste scolpite nella nostra memoria, del fatto che il loro autore all’epoca non avesse neanche 20 anni e delle difficoltà che ha incontrato dopo per ritrovare quella verve, non si può che pensare un classico della musica italiana, un esordio folgorante allora evidentemente sottovalutato, nonché in stato di grazia. Chiaro, ci sono le mode del 1999 come le volate brit pop di Un giorno migliore (che ancora chiude tutti i concerti di Cremonini) e Se ci sarai, che comunque in Italia non era mai stato replicato con risultati del genere; ma pure un pop con ambizioni tradizionali e maturità di fondo sorprendente (Qualcosa di grande), a far da contraltare a ballate teen come Vorrei. O più semplicemente, se si vuole sminuire il talento dietro un lavoro del genere: provateci voi, ad avere 18 anni, scrivere 50 Special e tenerla viva così a lungo.

1. “Possibili scenari” (2017)

Probabilmente uno di dischi pop più importanti per gli ultimi anni di musica italiana, specie nel momento in cui è uscito; sicuramente, quello che azzera la carriera di Cremonini e ne segna il punto di non ritorno, rendendo minuscolo il passato ed enormi presente e futuro, anche e soprattutto nella percezione collettiva. E questo avviene attraverso un lavoro ambizioso, pieno di stratificazioni e sfumature dentro cui lui si è volutamente perso, uscendone con un cosmic pop sporcato di elettronica notturna, piano di rito, archi e chitarre elettriche addomesticate. È la sua scommessa: prendersi delle vere libertà, immaginare un disco che possa aprirgli le porte degli stadi con pezzi da cinque minuti, renderli accattivanti per il grande pubblico. Ci riesce, come crooner nella ballata anti-radiofonica (di successo) Poetica o come ultimo erede di Dalla nell’instant classic da lacrimoni di Nessuno vuole essere Robin, mentre Kashmir-Kashmir sintetizza il funk e la romantica Un uomo nuovo gioca ancora con l’edm. Ma sono tanti gli episodi da segnalare, qui, che a volte richiamano il cantautorato più classico (la lunga chiusura La macchina del tempo) e altre i tormentoni estivi (La isla), ma senza mai sembrare simili a niente. Perché mancano soluzioni facili, tutto è lavorato con cura per suonare personale e affascinante, immediato ma non usa e getta. Ci sono voluti vent’anni; ne è valsa la pena.

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