Tutti gli album dei Litfiba, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
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Tutti gli album dei Litfiba, dal peggiore al migliore

In 40 anni di carriera la band ha fatto un continuo zig-zag tra rock e pop, sperimentazioni e schizofrenia new wave, lavori bellissimi e buchi nell’acqua. Ecco i loro 13 dischi in studio, con e senza Piero Pelù

Tutti gli album dei Litfiba, dal peggiore al migliore

Piero Pelù e Ghigo Renzulli nel 1985

Foto: Luciano Viti/Getty Images

Quarant’anni di Litfiba significano una cosa: quarant’anni di zig-zag fra dischi bellissimi e buchi nell’acqua; fra un Piero Pelù caricaturale e uno che, come frontman, ha pochi rivali in questo Paese; fra generi diversi, mode da cavalcare senza scrupoli e altre da interpretare a modo proprio. Perché non c’è, credo, un altro gruppo in Italia che abbia cambiato così tante volte pelle e line-up come la band fiorentina.

Da quel 6 dicembre 1980 del primo concerto (e no, non è l’8 di John Lennon, a fugare ogni dubbio), ne sono successe. Prima, negli ’80, la trilogia del potere, con una formazione da sgranare gli occhi: Pelù, appunto; poi Ghigo Renzulli alla chitarra, Gianni Maroccolo al basso, Antonio Aiazzi alle tastiere e Ringo De Palma alla batteria. Atmosfere scure e al tempo stesso mediterranee. Gli inizi con la dark, poi il post punk e la new wave, al loro apice in capolavori come 17 Re e il live Aprite i vostri occhi. Quindi Pirata, la svolta del 1990: Maroccolo e De Palma passano ai CCCP, e i Litfiba del duo Pelù-Renzulli si riscoprono rock, poi hard rock, infine etnici e direttamente pop. I testi, da ermetici e suggestivi, diventano sarcastici, provocatori, leggeri. È la tetralogia degli elementi (fuoco, terra, aria, fuoco e infinito), che si conclude nel 1999.

Da lì, il chitarrista resta solo e prova a portare avanti il nome della band con Gianluigi “Cabo” Cavallo come nuovo frontman. Sembra riuscirci, poi affondano insieme. E allora amici come prima: torna Pelù. Altri inediti, altri concerti. Con l’ossessione, a 40 anni dagli inizi, di non dover fare musica solo per nostalgici. Intanto, per festeggiare: qual è il loro disco migliore?

13. “Essere o sembrare” (2005)

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Forse il punto più basso della loro storia, sicuramente quello che ha spinto Renzulli a fermarsi in attesa di Pelù. Nonché il disco più ignorato da pubblico e critica. Insomma: dopo i segnali di vita di Insidia, Essere o sembrare riporta la band del periodo Cabo alla desolazione, e stavolta per sempre. Le atmosfere sono più scure, ma a parte il cazzotto de La tela del ragno il resto si perde in suggestioni esoteriche, “sataniche” e misteriche (Mistery Train) di terza mano, prese a noleggio dall’epoca che fu e annacquate in un lavoro pure ben prodotto, ma del tutto privo personalità. Davvero difficile da salvare.

12. “Elettromacumba” (2000)

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Liquidato in fretta nella primavera del 2000, a pochi mesi dall’uscita di Pelù per rispondere – immaginiamo – alle sue divagazioni poppettare, Elettromacumba avrebbe dovuto rappresentare uno statement di come il progetto proseguisse nelle mani del solo Renzulli, ma (già dal nome) è un testacoda. I suoni continuano a strizzare l’occhio all’elettronica, però i brani sembrano dei bozzetti che presto finiscono nella crisi d’identità. E la performance di Cabo, all’epoca al primo banco di prova, è spiazzante: complice un indirizzo in generale davvero poco personale, fa sembrare questo disco il lavoro di una tribute band dei Litfiba. Farsi un giro sulla title track (e relativo video) per vedere, sullo sfondo, il fantasma di Pelù che sghignazza.

11. “Infinito” (1999)

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L’equivoco che riguarda Infinito – l’ultimo album del duo Pelù-Renzulli prima della separazione di fine millennio – è che si tratti di un disco sbagliato perché pop, a fronte di un passato dark/grunge/new wave. Ma intendiamoci: tutti i lavori della coppia, da metà anni ’90 in poi, non hanno granché di alternativo rispetto a ciò che volevano, all’epoca, le radio. Semmai, il limite di questo disco è l’essere popolare con melodie irritanti (Il mio corpo che cambia, argh) e suoni da centro commerciale (Mascherina). Si salva Vivere il mio tempo, che comunque con un arrangiamento più duro e un cantato meno androgino avrebbe raccolto molto di più. Ma se tutt’ora viene ignorato ai concerti, nonostante i numeri (quasi un milione di copie vendute), un motivo ci sarà.

10. “Insidia” (2001)

Del periodo Cabo, Insidia rappresenta sicuramente il momento felice. E il fatto che comunque si trovi così in basso la dice lunga, di che anni bui fossero quelli. Ma tant’è: prese le misure della nuova voce, che finalmente riesce in buona parte a scrollarsi di dosso il bisogno di emulazione del proprio ingombrante predecessore, Renzulli riporta tutto ai ’90, rinunciando a ogni apertura all’elettronica (che pure sta facendo le fortune del Pelù solista, o forse proprio per quello) e sposando un rock classico. Burocratico, pure troppo collaudato e senza colpi notevoli. Ma almeno in grado di arrivare a fine mese (La stanza dell’oro, Ruggine), questo sì.

9. “Eutòpia” (2016)

Se Grande nazione aveva illuso che il ritorno Pelù nei Litfiba ci avrebbe regalato una band divertente e divertita, per quanto senza l’ispirazione di vent’anni prima, Eutòpia è un passo indietro. Non è neanche un disco di mestiere, ma semplicemente uno che scimmiotta il passato in versione caricaturale (L’impossibile è il classico soft rock della casa, come pure la title track e Straniero) e comunque trita (Santi di periferia), in grado di parlare giusto ai nostalgici indulgenti dell’epoca che fu. Pop-rock senza guizzi (Maria Coraggio), RUOCK conservatore (In nome di Dio, con la solita denuncia sociale un po’ così). Tante chitarre, pochissime idee. Poi certo: c’è Pelù, ci sono le chitarre al posto giusto; siamo comunque anni luce avanti a Insidia.

8. “Mondi sommersi” (1997)

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E quindi eccolo, il capitolo elettro-pop. All’epoca accolto tanto con circospezione dai fan storici quanto con calore dai più occasionali (700 mila copie in cascina, nonché loro più grande successo prima di Infinito), rappresenta il punto di svolta della coppia Pelù-Renzulli per lasciarsi alle spalle ogni ambizione che non sia quella di produrre un lavoro radiofonico. Ma se il tira e molla grottesco di Regina di cuori è la prima, vera caduta di stile del gruppo, il resto (ispirato all’acqua, e quindi a sonorità “liquide”) nasconde qualche piccola sorpresa. Il funk di Ritmo (più che la versione discotecara di Ritmo #2) è ballabile senza volgari ammiccamenti; Sparami e Dottor M compiono l’ultima incursione nel rock prima del letargo, con tanto di testi incendiari; e Apri le tue porte rimane un bell’esempio di pop psichedelico. Viste le premesse, citiamo Nanni Moretti: pensavo peggio.

7. “Grande nazione” (2012)

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L’album della reunion fra Pelù e Renzulli è pieno di buone intenzioni. Lasciati al passato l’infelice (ma fortunato) Infinito e persino Mondi sommersi, i due accontentano i fan ripartendo dal rock di Terremoto. L’ispirazione di allora è una chimera, a fronte di un disco di mestiere, con meno artigli (sia nei testi che negli arrangiamenti) e più accenni alle radio. Insomma: si va sul sicuro, prendendo i sé stessi del 1993 come modello. Ma l’esperienza, al di là di un primo pezzo pacchiano come Fiesta tosta e di una Squalo debolissima, paga. Non si grida al miracolo, però Luna dark (quasi un tributo agli inizi, in chiave moderna), La mia valigia (una No frontiere 2.0), la title track ed Elettrica sono prove di una band che sa ancora dove mettere le mani, sia a livello di scrittura di ritornelli che per i suoni. Peccato che Eutòpia abbia riportato sulla terra ogni fantasia sulle potenzialità di questo ritorno.

6. “El diablo” (1990)

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Il primo album senza la formazione storica, ma con in regia solo Pelù e Renzulli, è quello della svolta rock della tetralogia degli elementi. Ma El diablo (che rappresenterebbe il fuoco), al di là di una title track diventata classico nonostante un’estetica kitsch neanche troppo ironica (“Sei-sei-sei”…?), si perde un po’ a metà fra le aperture world di Litfiba 3 e il grunge di Terremoto (che invece è la terra), risultando inferiore a entrambi (Woda-woda e Ragazzo sono riempitivi già sentiti, per dire). Chiaro: avercene, di lavori così; e l’hard rock all’italiana di Gioconda, la ballata scura – dedicata a De Palma, all’epoca appena scomparso – Il volo e l’ululato di Proibito sono alcuni fra gli episodi più felici della loro carriera. Ma, insomma, nel complesso c’è di meglio. Ed è un merito.

5. “Litfiba 3” (1988)

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E qui il livello comincia a farsi alto. Il terzo disco della trilogia del potere, nonché l’ultimo della formazione storica, è il meno scuro e più vario del trittico. Maroccolo, Renzulli, Pelù: Litfiba 3 è un carnevale in cui ognuno fa ciò che vuole. E così la new wave sfocia nel post punk (Bambino), nel grunge (Ci sei solo tu e Cuore di vetro, con due prestazioni vocali maiuscole), nel garage rock (Amigo) e nella world music (Paname, Santiago). Pelù, prima di allora frontman maledetto e introverso, diventa il mattatore che sarà per il resto della carriera e dà il meglio in Tex, dove le anime del disco trovano equilibrio fra rock, atmosfera dark e suggestioni made in Usa, in un quadretto allucinato sullo sterminio dei nativi americani. Ah, già, perché ci sono anche i testi: poetici e onirici come già prima, certo, ma per la prima volta anche incazzati. Farsi un giro su Louisiana o su Santiago, per capire.

4. “Spirito” (1994)

Perché non si dica che ai Litfiba non sta bene l’abito pop: Spirito – il brano, non l’album – è il loro primo pezzo davvero radiofonico, per di più in piena accondiscendenza al grunge del 1994. Ma, più che adattamento alle mode, è capacità di inventarsi: latin metal, a fondere le impennate delle chitarre a suoni esotici e mediterranei, compresa la nostra tradizione nazionalpopolare. Ne esce un singolo micidiale, con un video epico sui tetti di Firenze e un arrangiamento a metà fra Buenos Aires, Seattle e i Pearl Jam. E il resto? Spirito – il disco, stavolta – segue il solco come una versione ampliata di Litfiba 3, superandolo: Lo spettacolo vira sul pop-rock di razza, No frontiere cresce come un trip, Animali di zona è puro grunge, Ora d’aria un colpo di coda hard rock. La chitarra di Renzulli domina senza impacci, Pelù fa lo sciamano nelle amate suggestioni gitane di Lacio drom. E il viaggio, rigorosamente da una cameretta della provincia, è servito. Insieme a un’altra infornata di classici.

3. “Desaparecido” (1985)

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New wave, sì, ma mediterranea. Rigorosamente italiana, magari retrodatata. Comunque sognante e originale nel trovare un compromesso fra la Firenze post punk degli ’80 (Eroi nel vento), l’Est sintetizzato e sognato da qui (Istanbul), la dark asfissiante delle origini (Guerra, quasi un teatro-canzone rarissimo in Italia) e i quadretti zingari (Tziganata, La preda). Il livello è altissimo, dalla prima all’ultima traccia. E, dopo più di trent’anni, Desaparecido resta un cult, manifesto della scena cupa degli ’80 che davvero ci ha fatti sentire al passo col mondo. E, anche per questo, è cugino del nobile Siberia dei Diaframma: male di vivere, testi onirici e ancestrali, atmosfere narcotiche, basso martellante (Lulù e Marlene è uno show). Ma non è solo Maroccolo: Renzulli è un lord, De Palma un martello, Aiazzi un pifferaio di tappeti ipnotici. E Pelù, soprattutto, sale sul palco come un diavolo esoterico: ha la voce gutturale, si muove sincopato, recita, è sensuale. Serve altro, per dire che un album con queste coordinate non lo avremmo più visto?

2. “Terremoto” (1993)

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Ok, il logo (scelta terribile) è identico a quello dei Metallica. Ma anzi si può partire proprio da lì, per spiegare l’importanza di un album come Terremoto: che non ha granché di derivativo, in realtà, ma è il manifesto del modo di lavorare dei Litfiba più ispirati, e cioè trovare una via personale a una moda internazionale. Se negli ’80 era il post punk, qui sono il metal e il grunge. Tradotto: arrangiamenti ruvidi su melodie aggressive, sì, ma orecchiabili, da fare invidia a gran parte della scena alternativa di allora, passando dalle ballate-colossal (Fata Morgana, Prima guardia) all’up-tempo di Soldi, dalle atmosfere languide di Maudit e Sotto il vulcano a quelle stralunate di Firenze sogna. E poi i testi: esaltati dal vocione di un Pelù per l’ultima volta davvero teatrale, che si staccano dalla poesie e raccontano mafia e Stato connivente, la naja, le allucinazioni, il moralismo tutto nostrano sul sesso. Fino a prendersela col Papa. Ecco: Desaparecido non era arrivato a tanto.

1. “17 re” (1986)

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Se Desaparecido è uno dei gioielli più limpidi degli ’80, il seguito doppio, 17 Re, lo batte perché ne esagera in maniera schizofrenica – e fuori da qualsiasi ragionevole riferimento – le caratteristiche. È un viaggio disperato e nichilistico nel buio, da ascoltare tutto insieme, che odora di morte e claustrofobia e in cui la chitarra di Renzulli diventa liquida e si mette in disparte. La scena, infatti, è di Maroccolo, che qui vive la propria consacrazione in un lavoro scuro e spudoratamente new wave, con qualche spigolo garage (Cane, Resta) e più spesso perso nelle tenebre (Pierrot e la luna), nel misticismo (Sulla terra, Univers) e nell’onirico (Ballata). Sono sensazioni che, a fasi alterne, torneranno nell’immaginario della band, ma che qui sono estremizzate in un’atmosfera asfissiante con un Pelù à la Ian Curtis. Il risultato è un suicidio commerciale, una scheggia impazzita: uno dei dischi italiani più importanti di sempre, sì, ma praticamente impossibile da replicare. Perché figlio del rarissimo equilibrio del dream team della prima formazione dei Litfiba.

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