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Taylor Swift è «un bel presidente»

La nuova serie Disney+ esplora il backstage del tour più di successo della storia ma soprattutto racconta una popstar che vuole essere ricordata come Adriano Olivetti. Bonus aziendali compresi

Foto: Vittorio Zunino Celotto/TAS24/Getty Images for TAS Rights Management

Anche Taylor Swift ha dei sentimenti. Non pensavamo ne fosse sprovvista, ma si può dire che negli anni la popstar più famosa al mondo si sia costruita un’armatura da public figure in cui era difficile mettere il naso. Un po’ come si faceva una volta, di Taylor sappiamo solo quello che racconta lei. E quando parla è subito annunciaziò.

Bisogna poterselo permettere. E lo scopo di The End of an Era, opera in sei parti arrivata su Disney+ (per ora sono uscite solo le prime due puntate), è quello sì di farci entrare nel backstage del suo ultimo, epico tour (The Eras, 150 date, 10 milioni di biglietti staccati), ma pure di dirci qualcosa in più sulla granitica star americana che, da quando è diventata gigante, rilascia interviste con il contagocce.

Lo status si costruisce anche così: decidendo quando parlare e cosa dire. Guidando la narrazione. E le cose che abbiamo imparato da questa prima visione sono diverse. La prima è che gli americani sono sempre i più bravi quando si tratta di fare “lo show”. È tutto gigante, preparato al millimetro, coreografato. È il loro mestiere. Ed è per questo che un po’ rido quando leggo sui comunicati stampa di artisti nostrani che fanno «tour dal respiro internazionale». Facciamoli respirare, sì, intanto oltreoceano hanno il grano e lo fanno sul serio.

Oltre ai soldi però gli americani sanno anche convincere e convincersi che tutto è possibile. La vecchia storia del you can do it, you’re worth it. Non a caso Taylor ripete questo concetto diverse volte a ballerini, alla crew, a se stessa. «Faremo la cosa più grande del mondo!», e alla fine la fanno davvero. Tutto il contrario di quello che ci hanno insegnato qui, dove i sogni finiscono dove finisce il (misero) budget.

Ma questa serie ci conferma ancora una volta che Taylor Swift è una macchina da guerra. Non si diventa i più grandi a caso: lei ci lavora da tutta la vita. E anche questo tour, record globale di incassi, arriva con quello scopo. Prendersi tutto, entrare nella storia. Lei l’ha fatto. E nel documentario si raccontano un po’ le storie di chi quel tour l’ha reso possibile. Coreografe, ballerini dal corpo non conforme. C’è spazio per tutti nel sogno americano.

Ma i momenti più emozionanti passano dalle cose brutte, come accennavamo all’inizio. In questo documentario Taylor affronta pubblicamente e per la prima volta due fatti orribili successi durante il tour. Parliamo dello scampato attentato a Vienna, quando più concerti furono annullati a causa di un allarme terrorismo («abbiamo evitato una strage»), ma soprattutto di quella storia orribile di Southport, Regno Unito, dove tre bambine sono state uccise e altre dieci persone sono rimaste ferite per mano di un pazzo entrato con un coltello in un luogo dove si stava svolgendo una festa a tema Swift. Prima dei cinque show londinesi, Taylor incontra i familiari delle vittime. Poi passa in camerino, dove piange disperata, e poi via sul palco perché nella vita di una showgirl funziona così. Ed è forse qui che si capisce l’intento di questo progetto. Perché se di Taylor Swift arriva sempre un po’ questa immagine forte, inscalfibile, da professionista navigata dello showbiz, qui si vedono le crepe. Si vedono come le vuole raccontare lei, certo. Ma almeno si vedono. E forse questi due momenti meritano la visione dell’intero speciale.

Poi possiamo soffermarci sulla storia più letta sui giornali, quella del bonus. Perché TS, che non è solo un’autrice ma è una corporation, e come ogni corp. che si rispetti al raggiungimento degli obiettivi premia i dipendenti. A ogni membro della crew (più di un centinaio) è stata consegnata una lettera sigillata da lei stessa con la ceralacca. Dentro c’era un messaggio: «sei stato indispensabile». Ma soprattuto c’era un assegno. Nella serie la cifra è bippata, ma quando leggono l’importo pare che ai ballerini venga un calo di pressione. I giornali parlano di 197 milioni da spartire tra chiunque abbia lavorato allo show. Decisamente meglio del pacco di Natale con panettone, lenticchie secche e spumantino del discount.

Perché Taylor Swift non vuole solo essere la più brava: Taylor Swift vuole essere la più grande. Musicista, imprenditrice, benefattrice. Insomma, quello che potremmo definire un «gran presidente».

E questo documentario arriva in un anno particolare. L’anno in cui il suo ultimo disco, The Life Of A Showgirl è stato sì il disco più venduto di sempre nella prima settimana ma è stato anche criticatissimo, esponendola forse per la prima volta in tanti anni a una serie di bad press evidente, senza considerare le recensioni degli utenti sui social (anche se personalmente penso fosse un trend pure questo, ma è un altro discorso).

Per la prima volta TS ha sbagliato qualcosa? Chi lo sa. Quello che abbiamo capito è che se le cose non vanno per il verso giusto si corre ai ripari. Le crisi aziendali si gestiscono con una visione. Guardate il documentario e capirete perché è suo il titolo di Adriano Olivetti della pop music. Perché Taylor non produrrà macchine da scrivere, ma come welfare di chi le sta intorno e visione strategica sembra imbattibile.

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