Sul Delta del Po a caccia di suoni: Max Casacci dialoga con Vasco Brondi | Rolling Stone Italia
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Sul Delta del Po a caccia di suoni: Max Casacci dialoga con Vasco Brondi

'Earthphonia' è il nuovo progetto del musicista dei Subsonica, un disco realizzato utilizzando solo rumori e ambienti della natura e un libro che lo racconta, di cui potete leggere qui un estratto

Max Casacci Earthphonia

Max Casacci

Foto: Luca Saini

Earthphonia è il nuovo album di Max Casacci realizzato senza alcuno strumento musicale, ma utilizzando rumori e ambienti della natura. Onde, ronzii di insetti, pulsazioni vulcaniche, tuoni, battiti d’ali, folate di vento sono stati trasformati in ritmi, melodie e armonie. «Le chiavi di Earthphonia, che nasce dai suoni e dai rumori naturali trasformati in tessitura musicale, sono lo stupore e l’empatia nei confronti degli ecosistemi e di tutte le meraviglie, spesso sconosciute, che nascondono», racconta il musicista.

L’album è disponibile in streaming e download. La versione su CD è pubblicata all’interno di libro intitolato Earthphonia. Le voci della terra (con Mario Tozzi, Slow Food Editore). È un viaggio all’interno e attorno all’album ed è arricchito dai contributi di Michelangelo Pistoletto, Mariasole Bianco, Stefano Mancuso, Carlo Petrini.

Pubblichiamo qui uno dei capitoli. “Delta (musica all’aria)” è sia il racconto della nascita di una delle tracce di Earthphonia realizzata con suoni e ambienti del Delta del Po, a partire dal verso degli uccelli, sia un dialogo con Vasco Brondi (Le Luci della Centrale Elettrica) che conosce bene quei luoghi.

Dal Parco del Delta del Po dell’Emilia-Romagna, una riserva Man and Biosphere Unesco ricchissima di biodiversità, arriva la proposta per la realizzazione di un brano con i suoni delle wetlands (zone umide), delle saline, di boschi e pinete, abitati da numerose specie avifaunistiche. Una zona di canneti ma anche di dune, con tramonti spettacolari e grande varietà sonora. Io non ci sono mai stato, ne ho sempre sentito parlare come di un luogo magico con racconti accompagnati da immagini potentemente suggestive.

L’idea è quella di trascorrere un paio di giornate a piedi e sulle imbarcazioni, microfoni alla mano, per catturarne le “voci”. Fantastico. Decido che per mia figlia potrebbe essere una bellissima esperienza e preparo la trasferta in treno per tutta la famiglia. Destinazione Ferrara. Ricordando una lontana conversazione con Vasco Brondi (musicista conosciuto anche come “Le luci della centrale elettrica”) proprio riguardo al Delta del Po, mi metto in contatto con lui, che so frequentatore e amante del luogo. Penso a quanto sarebbe stimolante esplorarlo insieme.
È tutto pronto.
Forse no.
No.
Fermi tutti.
Lockdown.
Tutti in casa.

Si decide per un’opzione smart, con suoni registrati in loco, che mi saranno spediti. È piuttosto spiazzante ritrovarsi nella condizione di rappresentare in musica un luogo che non si conosce se non attraverso racconti, filmati e fotografie. Come incoraggiamento mi rivolgo alle geografie immaginarie di Jon Hassell e Brian Eno, prendendo spunto dalla costruzione dei loro paesaggi sonori “teorici”, che tanto ho amato e all’interno dei quali ho tanto viaggiato. Del resto, la loro concezione di musica, capace di generare geografie immaginarie muovendosi nella direzione di un futuro primitivo, mi ispira da quando avevo vent’anni.

Chi non conosce quegli album può provare a immaginarne qualcosa attraverso la definizione di musica “possibile”, del “quarto mondo”, capace di coniugare le manipolazioni tecnologiche con un’ispirazione sonora quasi ancestrale. D’altronde i maestri uno se li sceglie anche per ottenerne, a loro totale insaputa, una qualche illuminazione.

Più tardi, però, il mio brano spiccherà il volo letteralmente in tutt’altra direzione.

A tale proposito mi sarà d’aiuto una considerazione: il canto degli uccelli, il rumore del vento e dei tuoni, gli elementi registrati che ho a disposizione in fondo sono tutti riconducibili all’aria. Quindi perché non immaginare una musica dell’aria? Cercando di tenere fede al paesaggio “teorico”, certo, ma provando a presupporre, inoltre, la fruizione di un brano che possa tenere idealmente l’ascoltatore sospeso tra le correnti e le nuvole.

Decido che il cuculo sarà il mio strumento principale. Lo sento da subito e ne isolo qualche nota per realizzarne un’armonia, e magari anche un suono profondo. Ci riesco facilmente. Per creare un sostegno di base, cioè una linea di basso, “sequenzio” in modalità rapidissima una sua nota, intonandola in giù. L’effetto sarà quello di un tappeto sonoro sfarfallante, che quasi impercettibilmente ricorderà un battito di ali. Poi, sempre con il cuculo, realizzo qualche accordo facendolo volteggiare ritmicamente nello spazio sonoro. Ma la vera star del brano sarà la spatola, un uccello di palude dal becco enorme, il cui verso risulterà magicamente intonato senza bisogno di manipolazioni, addirittura glissato di una tinta blues perfetta per l’immaginario del Delta. Poco importa se qui siamo sul Po e non sul Mississippi. La spatola regalerà un ritornello da brivido. Roba da professionisti.

Fenicotteri, gabbiani e altri uccelli, che francamente non saprei riconoscere, mi offriranno i colori dello sfondo mentre i rumori d’ambiente faranno il resto. Ci lavoro per almeno quattro settimane, a lockdown appena iniziato. Ogni tanto, verso sera, apro la finestra sul cortile, facendone uscire qualche sequenza, per provare a capire come potrebbe arrivare all’ascoltatore casuale di una delle tante altre finestre aperte. È un test tutto mio, mi rendo conto. Ma sembra funzionare piuttosto bene.

A metà del brano provo a cambiare il ritmo, come se l’ascoltatore cambiasse la frequenza del battito delle ali. Poi di nuovo la spatola e via verso il finale. Durante tutta la lavorazione penso che sarei curioso di sapere che cosa ne direbbe il ferrarese Vasco Brondi, che quei luoghi conosce, frequenta e che nel silenzio di quegli spazi si rifugia da anni. Forse, anche per questo, credo di temere un po’ il suo giudizio. Fatto sta che, una volta stabilito che il brano è concluso, glielo spedisco. Sarà il primo ad ascoltarlo, a parte la mia famiglia e i miei gatti, ai quali ho somministrato cuculi e tuoni per settimane.

Dopo avere ricevuto, con grande gioia e sollievo, una sua reazione entusiastica, gli propongo una chiacchierata.

È stato davvero un peccato, avrei voluto tanto immergermi in quei luoghi accompagnato da te che li conosci così bene. Una volta mi hai detto che per te quello è una sorta di rifugio creativo o qualcosa di simile, vero?

 «Sì. Per me è quasi un rito, dopo una giornata nel mio studio a Ferrara, prendere la bici e fare una trentina di chilometri sull’argine del Po. È il primo posto in cui sono andato non appena è stato possibile uscire di casa. Sono pure sceso dall’argine per mettermi il più vicino possibile all’acqua e sono rimasto ore tra quei suoni, quei rumori e i canti degli uccelli. Qualche volta mi sono spinto fino al Delta e al mare – sono circa cento chilometri – seguendo il fiume fino a quando non iniziano a comparire i gabbiani».

Mi sono ritrovato nella condizione di costruire a distanza un brano che utilizza la materia prima di quella zona umida per rappresentare in un certo modo la musica dell’aria. In fondo ho intonato il vento, i tuoni, il verso o il canto degli uccelli che sono creature dell’aria. Tu, in questo brano, quanto hai ritrovato di un luogo a te così familiare?

«Ho ritrovato la sua armonia e la sua impassibilità. Nel brano sento come quei suoni siano rimasti delicati e come, anche con una ritmica più serrata, emergano le varie identità. L’insieme è qualcosa di più dell’usare quei suoni come campioni, crea una scenografia naturale, visualizzo subito quegli alberi, mi sembra di sentirne l’odore».

Secondo te esiste un’ecologia del pensiero? Siamo più propensi a riflettere e costruire mentalmente in modo migliore, a seconda dei luoghi e degli ambienti che ci circondano? E se sì, ritieni che gli spazi meno antropizzati offrano una condizione oggettivamente più favorevole? Che siano dimensioni più adatte a pensare meglio? Sono curioso di domandarlo a te perché, a partire dal tuo primo progetto “Le luci della centrale elettrica”, hai scelto una certa desolazione urbana come ambiente narrativo, forse anche affettivo.

«Le città sono luoghi creati da esseri umani per esseri umani, dove ormai non ci sono neppure più i piccioni. Non c’è dubbio che quando ce ne allontaniamo la mente si calmi. Se ci avviciniamo a una cascata e andiamo a sentire che cosa abbia da dire, se camminiamo in un bosco o su un vulcano, i grilli che abbiamo nella testa cominciano a lasciarci stare. Se ci immergiamo in un torrente, in un lago o nel mare, la proliferazione mentale, quella inutile con cui ci identifichiamo completamente, rallenta. Sento che la mente ricomincia a essere più spaziosa. Siamo meno accecati da questioni che ci sembrano di vitale importanza mentre, invece, spesso sono enormi cazzate. Forse iniziamo a mettere in dubbio la competizione e la corsa, senza fine e senza senso, di obiettivo in obiettivo, e ci rilassiamo un attimo. Ci importa meno tutto quel mercanteggiare che ci circonda normalmente. Nella città i luoghi migliori forse sono proprio quelli desolati. Da ragazzini andavamo a vedere le luci della centrale elettrica come se fossero un grande fuoco d’artificio. Era la cosa più spettacolare che succedesse la sera in città e le guardavamo proprio andando verso il Po, dove tra l’altro, con sprezzo del pericolo e forse con stupidità, facevamo addirittura il bagno. Avevamo trovato una secca che sembrava una baia, c’era la corrente forte e l’acqua era molto trasparente, ci sembrava pulita ma sapevamo che era meglio non dirlo a nessuno».

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