Rolling Stone Italia

‘Zooropa’ degli U2 è invecchiato bene

Il figlio strambo di ‘Acthung Baby’ e dello Zoo TV Tour usciva trent’anni fa. Sembrava un dischetto minore. Oggi suona incredibilmente attuale

Foto: Western Mail Archive/Mirrorpix/Getty Images

Zooropa è invecchiato stranamente bene quando trent’anni fa non gli si dava una lira, o quasi. Arrivato subito dopo Achtung Baby, lo strappo alla routine degli U2 “con la testa a posto” di The Joshua Tree, ne sembrava la diretta discendenza “acida” e deboluccia che necessitava di ricostituenti: piaceva ma non abbastanza, era sperimentale ma non ostico, era inascoltabile ma stranamente godibile. Achtung aveva avvicinato gli U2 al mondo alternative/industrial/grunge, era la prova di una band “nuova” che resettava tutto e smetteva di crogiolarsi nella comfort zone. Zooropa appare diafano in confronto ad Achtung Baby, meno rock, meno “fisico” e più smaterializzato, spossato, frammentato in un mondo che ha oramai perso aderenza con la realtà.

Lo Zoo TV da semplice tour promozionale era diventato un laboratorio multimediale, un esperimento sul reale e sul virtuale, un’analisi dell’informazione in quanto merce contraffatta che parte dalle paranoie della Guerra del Golfo fino agli slogan come “guarda di più la tv” che sono dei proto meme. Per molti lo Zoo Tv Tour è stata un’operazione megalomane, una manipolazione continua del pubblico, prodromo in minore della successiva, famosa e clamorosa intrusione a tradimento degli U2 nei dispositivi Apple di tutto il mondo. Per altri, come me, fu un’epifania di come il mainstream potesse accartocciarsi su se stesso rischiando una vera e credibile redenzione anticommerciale, una roba che senza dubbio proiettava nella teatralità grottesca tipica del rock, ma anche in una overdose mediatica senza precedenti, un bombardamento sensoriale assolutamente moderno che dava da pensare sul masochismo tecnologico degli uomini.

In quel tour gli EBN, il collettivo simbolo del terrorismo mediatico, parteciparono attivamente ai video tanto da crearne una mix version per Numb che sembrava nato apposta per essere la colonna sonora del tour. Era singolo atipico, disturbato da suoni provenienti dalle più varie e cacofoniche fonti, in cui arie mediorientali cozzavano con la dozzinale rozzezza occidentale ridotta allo stato infantile della tastierina ebete di Brian Eno. La voce monocorde di The Edge, che per la prima volta su singolo diventa protagonista, salmodia un testo sulla deprivazione sensoriale per eccesso di input, sotto una base idiota pervasa da una chitarra maciullata dal flanger. Il video era assolutamente delirante nel suo quadretto di abuso consenziente, e ovviamente nessuno si aspettava una deriva simile dai quattro irlandesi.

Zooropa quindi è forse il disco più audace di quella che chiameremo la trilogia folle degli U2, che finisce con Pop, altro capitolo assurdo. Quegli U2 commercialmente suicidi sono poi spariti lasciando il posto ad attempati signori che tentano di fare i ragazzini e ricevere consensi a qualsiasi costo. In Zooropa non c’è nulla di tutto questo, ma quattro personaggi al top della fama che salgono su una giostra fuori controllo come se ne fossero quasi estranei, dissociati. Come disse The Edge, normalmente uno fa un disco e poi un tour promozionale e non l’inverso: Zooropa invece è proprio ispirato alla allucinazione di quel tour, talmente tanto che da EP diventa album.

Musicalmente Zooropa ha previsto l’eccesso di tecnologia che prosciuga l’ispirazione, la velocità di composizione che viene lasciata alle macchine, la completa e perenne disomogeneità della fruizione artistica sui social, il frag pop prima che avesse un nome. Zooropa racconta il bombardamento di stimoli fini a se stessi, è una intelligenza artificiale istruita male che non ci capisce più un cazzo. In Zooropa sembra che tutte le canzoni siano usa e getta come caramelle pompate dai coloranti, frutto di uno splittaggio tra reale e virtuale, create con una fretta tale da mettere in risalto appositamente i difetti dell’urgenza bulimica di comunicare tipica dei 2000 alle porte.

In particolare Daddy’s Gonna Pay for Your Crashed Car, nel cui testo il problema di trasformarsi in “psicofarmaci ambulanti” non è solo un rischio da ricchi viziati, ma di tutti in quanto consumatori di un universo parallelo che ti abbrutisce, in cui “conosci tutti, ma ti senti solo”. Un brano messo su da un campione di MC 900 Ft. Jesus e con l’intro della «canzone preferita di Lenin» diventa quasi mantrico nella sua compiaciuta perdita di bussola.

Sono molti i punti di riferimento del disco, in primis i Kraftwerk, di cui Zooropa vuole essere un Radioactivity 2.0. Lì la radioattività vista come risorsa, qui i nuovi media digitali, che sono la nuova droga psichedelica, e la luce blu degli schermi come modo per vedere oltre diventando ciechi: il negativo che ha una forza positiva. Ed ecco perché il punto di riferimento principale sono i Beatles “frantumati” di Sgt. Pepper’s e del White Album, già solo per i riff. Alcune volte lo scippo è palese e clamoroso: Babyface, sull’innamoramento morboso/feticista per l’immagine di una modella che leggenda vuole sia una dedica di Adam Clayton a Naomi Campbell allora sua compagna, è praticamente una nuova versione di Dear Prudence. Oppure Some Days Are Better Than Others che sa tanto di George Harrison. La chiusura del disco è affidata alla voce di Johnny Cash, con The Wanderer, un electro country à la Suicide clamoroso quanto improbabile in cui il cantante americano sembra un Bono “contraffatto” da qualche effetto vocale AI.

La produzione di Eno e Flood (che a quel tempo era coinvolto anche nella produzione dei Nine Inch Nails) è quanto di più macchinoso si possa avere, tra taglia e cuci di session per creare un brano intero, metodi di composizione non ortodossi con Eno alla direzione d’orchestra delle dinamiche, ad armamentari sintetici che partono dalla chitarra elettrica, oramai lontana dai timbri dello strumento e lanciata sulla luna della sintesi. Disco registrato nelle pause tra una data e l’altra dello Zoo TV, impresa folle con aerei presi di continuo ed esaurimenti nervosi incipienti, è senza dubbio permeato da un mood tanto alterato quanto euforico. Gli U2 superano la misura anche autoplagiandosi, come in The First Time, un brano che in pratica è All I Want Is You col suo indugiare su due accordi due stile Velvet Underground, ed è tanto simile che nell’arrangiamento sembra la versione “annegata” in un fiume dronico, dando in pasto il cadavere all’ascoltatore.

Molti sono i riferimenti a difficoltà emozionali, a disfunzioni dei sentimenti, a squilibri emotivi. Dirty Day, dal riff curiosamente identico all’intro di Compleanno di maggio dei Pooh, uscito nel 1981, è il lato edipico, Lemon è il recupero del ricordo della madre morta di Bono attraverso le sue foto. Ne esce una riflessione quasi filosofica sulla caducità della carne da una parte e l’eternità delle immagini dall’ altra, all’epoca probabilmente vista come un filosofeggiare affascinante ma fine a se stesso e oggi lucida visione di un tempo post Instagram dove ci emozioneremo per quello che non è materiale e rimuoveremo il concetto di morte della carne, anestetizzandolo perché troppo doloroso.

Forse per questo nella musica di Zooropa si tende a rivitalizzare il kraut rock con la sua reiterazione che non accetta la fine, e gli U2 riescono ancora a scrivere dei classici come Stay (Faraway So Close!) che, colonna sonora del film di Wim Wenders Così lontano così vicino a parte, è una ballata in odore lo-fi che ancora una volte parla di distanze emozionali anche se si è a due passi gli uni dagli altri (altro che Let Your Love Be Known del Bono pandemico). A proposito di distanze, la copertina dell’album sembra raffigurare un avatar: il disegno di un’astronauta/bambino infelice, dentro la bandiera di un’Europa più immaginaria che reale. Un desiderio di libertà in un cosmo che si riduce sempre più a confine, a ghetto dorato, trasforma la distopia in utopia nella title track che abbraccia le variopinte teorie accelerazioniste.

Ovvio, restano molti dubbi sulla fragilità qualitativa dell’album, dubbi che vennero agli stessi U2 riascoltandolo col senno di poi. Ma rieccoci qui, dopo 30 anni: segno che forse gli U2 avevano capito ogni cosa. D’altronde oggi come ieri “tutto quello che sai è sbagliato”.

Iscriviti