«Vivere esageratamente e ridere dei guai»: Paolo Jannacci racconta Enzo Jannacci | Rolling Stone Italia
Quando un musicista ride

«Vivere esageratamente e ridere dei guai»: Paolo Jannacci racconta Enzo Jannacci

Nell’introduzione del libro ‘Enzo Jannacci. Ecco tutto qui’, il musicista racconta il padre, «un perenne ragazzo» che stava dalla parte dei deboli. Scampato dalla guerra, «bruciava dalla voglia di vivere»

«Vivere esageratamente e ridere dei guai»: Paolo Jannacci racconta Enzo Jannacci

Enzo Jannacci e il figlio Paolo al piano, di spalle

Foto: Rino Petrosino/Mondadori via Getty Images

Parlare e scrivere di Enzo Jannacci è un’impresa: meravigliosa, ma anche molto complicata, perché, come in un caleidoscopio, ogni suo gesto e ogni sua testimonianza si moltiplicano in una serie di eventi, emozioni e racconti che però sfuggono alla simmetria. Ci sono i ricordi, gli sguardi, gli aneddoti, le fotografie… ma non bastano, perché sono tutti elementi effimeri e piano piano si dissolvono e scompaiono, come quando una splendida giornata d’autunno lascia spazio al buio della notte.

Quello che rimane, invece, sono la musica, le canzoni, le poesie, legate a un momento di vita.
 Ecco, queste rimarranno per sempre e sono l’ossatura di un Artista “diviso a metà” tra un medico chirurgo e un musicista che setacciava l’animo umano e lo raccontava con gli occhi del ragazzino. Un perenne ragazzo che aveva scampato la guerra (la Seconda mondiale, per i più giovani) e che bruciava dalla voglia di vivere.

Enzo voleva sempre “vivere esageratamente” per poter “ridere” dei guai e raccontare le emozioni e la sofferenza dei più deboli, di chi è stato escluso e magari dimenticato sul ciglio dello “stradone col bagliore” che porta all’aeroporto Forlanini.

Suo padre Giuseppe gli aveva raccomandato di capire i deboli e che sarebbe stato importante poterli curare come medico: ecco perché Enzo ci si mise con tutte le sue forze, laureandosi con non poca fatica e diventando un grande diagnosta. Ma ecco ripresentarsi il caleidoscopio di emozioni e desideri: pur continuando la carriera di medico specializzandosi in cardio-chirurgia e frequentando i primi master per la terapia antishock negli Stati Uniti, Enzo veniva travolto dalla musica; il jazz… e tutte le sue sfumature e i suoi “enigmi” (contiani). Ovviamente non c’era solo il jazz, c’era anche la musica leggera, gli amici veri come Paolo Tomelleri e il rock’n’roll con Giorgio Gaber… gli esperimenti con le band milanesi, dove suonava come polistrumentista: nei Rocky Mountains come chitarrista, nella Milan College spesso come sostituto pianista o bassista, nei Cavalieri invece come chitarrista e pianista (membro fisso), ma anche solo come bassista (per esempio con Franco Cerri).
In tutto questo fermento musicale e culturale, in una Milano che rinasceva dopo la guerra e che si apprestava a diventare un punto nevralgico europeo della musica jazz, Enzo fissava i suoi primi brani più particolari – come L’artista, Bambino boma, Il tassì, Il giramondo, Un amore da 50 lire ecc. – suonando per Sergio Endrigo e Adriano Celentano e facendosi poi notare anche dal grande artista e drammaturgo Dario Fo.

A proposito di Celentano: memorabile fu una pseudo-tournée in Germania durante un inverno a cavallo tra il 1958 e il 1959 con Luigi Tenco al sax, Paolo Tomelleri al basso elettrico, Nando De Luca alla batteria, Enzo Jannacci al pianoforte e lo stesso Adriano alla chitarra e al canto; memorabile perché, dopo aver suonato in una “balera di quart’ordine” vicino a Norimberga, l’impresario scappò con l’incasso!

Comunque Enzo spesso diceva, per ridere, che agli inizi era “allo sbando” e fu grazie a Dario Fo e alla sua perizia che insieme organizzarono i suoi brani in maniera più ordinata e ne composero molti altri, arrivando al successo di Vengo anch’io. No tu no.

Ma i ricordi sono soggettivi e le emozioni di un figlio sono parziali… ecco perché è splendido leggere e ascoltare la critica di Enzo Gentile, che traccia una propria impressione sul vissuto concreto delle canzoni e delle storie, che ormai non possono più scappare! E ci raccontano (anche se guardate in un caleidoscopio emotivo personale) il reale di un artista! Mi piace spesso fare una riflessione rivolta alle canzoni di Jannacci, prendendo in prestito una lezione universitaria del mio professore Massimo Recalcati che citava Jacques Lacan; le canzoni di Jannacci potrebbero essere, a mio parere, il mezzo con cui si prova a ritornare dal campo anonimo e universale del linguaggio a quello enigmatico e pulsionale del soggetto. Un tentativo di ritorno verso il nostro inconscio, cercando di scoprire il reale del soggetto stesso. Questo viaggio può esistere perché, spesso, nelle canzoni di Jannacci la parola non è vuota, non è una chiacchiera, ma è parola piena, densa di significato; una parola poetica che sovverte il codice del linguaggio e diventa piena di significato.

Quindi la musica e la poetica diventano i punti nodali per scoprire il mondo di Enzo Jannacci, ma anche per scoprirci a nostra volta e viaggiare nel nostro profondo; usare la canzone come un velista userebbe la sua vela per portarsi lontano, verso una meta enigmatica che aiuta a svelare il significato del nostro essere.

Enzo diceva spesso che il suo teatro era una “fumisteria”. Era vero! Una fumisteria dove, in un fumo di parole apparentemente senza senso, ne spiccava sempre una che, come una scintilla, infiammava gli animi e indicava una via di lettura della sua e della nostra soggettività.
 Mi piace pensare alle canzoni di Jannacci usate in questo modo… a volte ascoltare una canzone è come compiere una piccola seduta psicoanalitica… altre volte no, ma è lo stesso molto divertente.

In questa impresa meravigliosa e complessa, cercheremo di inquadrare le canzoni di Enzo e di utilizzarle a loro volta come elementi formativi delle nostre emozioni, perché una canzone è sì lo specchio dell’artista che la scrive, ma è soprattutto un mezzo di comunicazione con l’ascoltatore, che, una volta assunta, ne potrà fare ciò che vuole. Io, per esempio, ascoltando Cosa importa ho sempre visto, prima dell’immagine del ragazzo che si faceva di eroina, l’immagine di una carrellata cinematografica sul cemento delle strade della mia città.

Oppure Vincenzina me la raffiguro come una ragazza giovane, dai capelli lunghi e castani, labbra rosa e sottili, con intense sopracciglia, leggermente incerta nei movimenti, ma decisa nel carattere.
Ognuno di noi può creare la sua visione, può guardarsi dentro, perché nelle canzoni di Jannacci viene lasciato quasi sempre uno spazio all’interpretazione, all’identificazione e all’immaginazione.

Io penso spesso, sbagliando, che la vita di un uomo si possa racchiudere in un album di fotografie, ma nella “fotografia” di Enzo Jannacci ogni particolare ci rimanda ad altre vite, altre storie, altri personaggi che hanno dentro lo stesso Jannacci, ma al contempo si svincolano da lui per diventare persone migliori, quasi sentendosi imbrigliate in una realtà fatta di “tanti automobil, de tütt i culùr, de tütt i grandess, l’è pien de lüs, che el par d’ess a Natal, süra il ciel pien, de bigliett de mila… che bel ch’el ga de vèss… sciuri, cun la radio noeuva e nell’armadio, la torta per i fioeu che vegnen a cà de scola… te tuca daghi i vissi: per ti, un’altra vestina! A ti, te cumpri i scarp!” (Ti te se no). E dove il Duomo di Milano “è pieno d’acqua piovana, ce l’han portata con gli ombrelli, ce l’han portata con i pianti, ce l’han portata con i pianti, per la redenzione delle puttane” (Il Duomo di Milano). Oppure la realtà di un maresciallo che continuava a dire: “Andate tutti via, andate via che non c’è più niente da vedere, niente da capire… credo che ti sbagli, perché un morto di soli 13 anni è proprio da vedere perché la gente sai, magari fa anche finta, però le cose è meglio fargliele sapere” (La fotografia).

Un “uomo a metà”, Jannacci, che divide queste metà in due e così via, fino all’infinito delle vibrazioni armoniche e musicali. Ma spesso e volentieri Jannacci diventa solo un saltimbanco, meraviglioso nella sua semplicità e nei suoi modi, che cerca di raccontare delle storie tragiche, comiche, surreali, a chi ha bisogno di ascoltare.

Insomma, si ritorna sempre al caleidoscopio musicale, sonoro, emotivo, poetico, dentro al quale ci sono migliaia di elementi e di emozioni che vanno al di là di una biografia fatta di “77 pagine” ovvero gli anni sfogliati da Enzo. E tutti questi elementi, tutte queste emozioni, sono ancora presenti nelle canzoni di Enzo Jannacci; canzoni che a volte ti parlano piano, a volte bisbigliano, a volte ti graffiano, a volte gridano qualcosa che non sembra neanche bello sentire, ma che diventa (per chi ha voglia di ascoltare) un punto cardine di un’esperienza. Un’esperienza che ci potrà servire o ci darà lo stimolo per correggere qualcosa di sbagliato.

Parlare di Enzo Jannacci è sempre una questione di cuore, perché Enzo, oltre ad averlo studiato, metteva il cuore in tutte le sue creazioni (come in Natalia ci fa ascoltare il suono della sala operatoria…), metteva sempre energia dirompente in ogni cosa, che poteva essere taciuta solo dal fragore del suono del tram!

Energia in casa con il suo pianoforte, energia in ospedale durante le notti, energia in teatro aggrappato alla chitarra, energia in motorino per evitare di cadere, energia nelle risate con gli amici, energia quando ha imparato ad andare sul windsurf, energia nelle sfuriate o nei rimproveri con il sottoscritto, energia in una carezza, energia negli errori incredibili che ha commesso durante tutta una vita, energia nel raggiungimento di altrettanti incredibili risultati, energia nel cercare sua moglie, energia nel silenzio per trovare la scintilla che fa la differenza.

Energia in un canto quasi sempre all’estremo della vocalità dove c’era una smorfia beffarda di dolore e di ironia, come a ricordargli e ricordarci che la sua vita viaggiava in bilico tra il dolore (il suo, quello dei suoi pazienti e dei disperati) e l’ironia – a volte grottesca – di prendere la vita per i fondelli, sapendo che comunque è sempre lei che vince la partita.

Mettere lacrime sulle mie dita
Parlare un po’ con le matite
Spiegare cose mai ben capite
Lavar le scarpe e le ferite
Brutta puttana che è la vita
Vuol pareggiare la partita
Come un amico che tradisce
Come un furgone che impazzisce
La biglia gira e non capisce che…
Tu come storia non vai più
Rien ne va plus
(da Rien ne va plus)

Quest’energia non se n’è andata. È proprio lì, tra una riga e l’altra del testo, magari tra una riga e l’altra della sua Lettera da lontano oppure in un accordo dove si capisce che “quando un musicista ride… eh eh… è perché sente dentro come una strana gioia vera. O forse perché mi han mangiato una pera… una pera? Sì, una pera o una mela… sì… ma part-time” (Quando un musicista ride).

Ecco, parlare di Enzo Jannacci è sempre molto complicato, ma è anche incredibilmente meraviglioso.

enzo jannacci ecco tutto qui

Tratto da Enzo Jannacci. Ecco tutto qui, di Paolo Jannacci ed Enzo Gentile (Hoepli)

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