Trent’anni di ‘Selected Ambient Works 85-92’, l’inizio dell’Aphexismo | Rolling Stone Italia
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Trent’anni di ‘Selected Ambient Works 85-92’, l’inizio dell’Aphexismo

Un disco morbido, ironicamente lontano dai ritmi irregolari e dagli sbeffeggiamenti che hanno creato il mito di Aphex Twin, ma che negli anni è diventato il manifesto originario di chi non ci sta, di chi ama la musica elettronica per la sua natura antagonista e controcorrente

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Aphex Twin

«Dareste mezzo milione di euro a uno che fa questa musica?»: questa è la domanda che si potrebbe calare sul piatto oggi, per capire quanto assurdo sia non solo il personaggio di Richard D. James alias Aphex Twin in sé, ma proprio tutto ciò che è la sua traiettoria dai primi anni ’90 a oggi. Da un lato è un dato di fatto che il suo management sia arrivato a chiedere in questi anni più o meno mezzo milione di euro per una singola data (trattabili, magari anche dimezzabili, ma non pensiate di pagarlo qualche decina di migliaia di euro), dall’altro è innegabile che la sua leggenda si sia formata sì attorno a Come to Daddy, ai video gaglioffi e urticanti con Chris Cunningham (ehi, Windowlicker! Una parodia del rappusismo buona allora come oggi, pensa quanto poco sono cambiate le cose!), e però ciò che proprio oggi è giusto ricordare è il fatto che, prima di tutto, il culto di Aphex nasce da un disco come Selected Ambient Works 85-92. Disco di cui oggi cade il trentennale.

È già stato detto – lo ha scritto ad esempio Pitchfork ancora vent’anni fa, e non c’è motivo per cui le cose siano cambiate – quanto sia un disco invecchiato un po’ male, nel senso che riascoltato oggi sembra veramente datato a livello di suoni, a livello proprio di qualità produttiva. Quello che però raramente si legge, anche per timore reverenziale verso tutto ciò che Selected Ambient Works rappresenta, è quanto sia proprio un disco morbido. Già: Aphex ha costruito il suo mito (e i suoi cachet spropositati) sull’irregolarità, sull’essere urticante e sbeffeggiatorio, sul breakbeat spezzattato e in distorsione come arma contundente, sui visual rabbiosi e acidici, eppure ciò che ha posto le fondamenta del suo mito è in realtà l’esatto opposto di tutto ciò. Ironia della sorte.

Selected Ambient Works non è ovviamente un disco ambient, il titolo è in parte fuorviante ed era anche una prima graffiatina di sarcasmo aphexiano contro la proliferazine e l’inflazione all’epoca del termine in sé; però è oggettivamente un disco leggero, soffice, morbido, sognante. Una serie di aggettivi, questa, che difficilmente oggi si accoppierebbe a Richard D. James e alla costosa aura che lo circonda. Non è nemmeno un disco particolarmente acrobatico o sperimentale, diciamola tutta: basta ascoltare il coevo The Orb’s Adventures Beyond the Ultraworld (anzi: uscito addirittura un anno prima) per trovare un disco più strano, più visionario, più destrutturato, più iconoclasta.

E quindi? Dove sta il trucco? Il fatto è che questo esordio di Aphex sulla lunga distanza, uscito originariamente sulla belga R&S e non sulla Warp poi diventato sinonimo di Aphexismo, più che iconoclasta è icastico. Ovvero, fotografa alla perfezione quella che poteva essere la prima grande ritirata rispetto alla iniziale ondata dell’acid house, dei rave come fenomeno di massa (e di costume), della musica elettronica in quattro quarti che diventa improvvisamente la colonna sonora del weekend di milioni di persone. E, di conseguenza, il guadagno milionario di un sacco di avventurieri giovani e furbi capaci di scommettere in tempo reale sull’ascesa di questo cambio di paradigma, un cambio sia sonoro che di dinamiche fruizionali. Si sa: quando entrano in campo i soldi in modo serio, e coi rave e l’acid house ci arrivarono eccome e ben presto, entrano in campo gli scaltri affaristi; e quando entrano in campo gli scaltri affaristi, il fascino primigenio, quello candido e puro, è già andato a puttane (in qualche caso: letteralmente).

Selected Ambient Works, oltre a essere un disco di melodie elettroniche belle e azzeccate (sì: melodie, la prima melodic techno è questa), è anche e soprattutto il manifesto originario di chi non-ci-sta: di chi si è innamorato della musica elettronica cercando l’antagonismo e la controcultura ma, ai primi segnali di exploitation capitalista, ha masticato l’amaro sapore della delusione, cercando anche di nascondersela (ma senza riuscirci completamente, senza riuscire ad auto-convincersi). È così che si è celebrata la mitopoiesi di Aphex Twin, il Messia puro dell’elettronica, quella più intransigente e meno pronta a piegarsi alle leggi di mercato (e se si piega ad esse, l’elettronica declinata ad Aphex lo fa solo per fare delle rapine con scasso: vedi la montagna di soldi strappati alla Pirelli per la sonorizzazione del celeberrimo spot con Carl Lewis allora, e i 200/300/500 mila euro chiesti per set di 90 minuti oggi). Una mitopoiesi che lo stesso mitizzato, ne siamo abbastanza convinti, trova abbastanza buffa e fuori fuoco.

Chiaro: non stiamo dicendo che non ci sia del genio in Richard D. James (ce n’è, eccome); non stiamo dicendo che non sia uno dei più importanti protagonisti della musica strumentale negli ultimi trent’anni (lo è, anche se bisognerebbe restringere il range solo agli anni ’90, è lì che fa e ha fatto la differenza, già lo snobbissimo Drukqs d’inizio 2000 era un minestrone tanto fumo e poco arrosto); ma il suo mito è stato costruito non solo e non tanto per la musica che ha fatto, ma per la facilità con cui ha rappresentato una bandiera controculturale e di resistenza per tutti quelli che dalla rivoluzione dell’elettronica si aspettavano qualcosa che, poi, è arrivato solo in piccolissime parti. E che oggi viene rimasticato da gente sempre più ricca, sempre più distratta, sempre più vanesia, sempre più dozzinale nei gusti e nelle scelte – almeno nel mainstream.

Aphex è ancora oggi una Madonna Pellegrina per chiunque ambisca a una via alternativa e, come dire?, ecosostenibile ad una architettura sonora e mentale che sia tanto digitale quanto psichedelica (quindi a-performativa, incompatibile con l’ottimizzazione dei numeri): Selected Ambient Works, con le sue atmosfere ostentatamente pastorali, è la sublimazione perfetta di questa pulsione, di questo desiderio, di questo ricordo perduto. Lo è molto più dei dischi che poi segnarono davvero il successo popolare di Aphex presso le falangi intellettual-alternative e pre-hipster (le già ricordate sortite arricchite dall’immaginario video cunninghamiano). Se Aphex fosse stato solo quello, avrebbe avuto una fama enorme per un decennio, ma poi sarebbe stato percepito come meno cool e puro (bizzarro che le due cose possano convivere ma sì, ogni tanto convivono), diventando un ricordo via via sempre più sbiadito.

È stato invece proprio l’Aphex di Selected Ambient Works – più approssimativo, meno coraggioso musicalmente, meno graffiante di quello arrivato dopo – a creare invece il terreno su cui edificare il mito, un mito che si nutre di se stesso, visto che meno Aphex fa, più il suo cachet cresce. Pochi artisti al mondo sono nella sua situazione. Lui, almeno, resta una persona schiva e con un notabile sense of humour. Se pensiamo alla fine che fa oggi un Kanye West – un altro passato per genio più per quello che rappresenta che per quello che fa, pure lui è della schiatta – ci sembra un bel risultato.

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