Vasco Brondi ci piace perché ci ricorda che siamo insetti resistenti | Rolling Stone Italia
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Vasco Brondi ci piace perché ci ricorda che siamo insetti resistenti

In 'Paesaggio dopo la battaglia' il cantautore tira in ballo Battiato, Thoreau, Terzani e Ferretti per dirci che siamo piccoli e fragili, ma che una vita migliore è possibile. È uno «spacciatore di vita»

Vasco Brondi ci piace perché ci ricorda che siamo insetti resistenti

Vasco Brondi

Foto: Max Cardelli

Il nuovo album di Vasco Brondi Paesaggio dopo la battaglia si apre con un brano, 26000 giorni, il cui titolo rivela la media dell’aspettativa di vita mondiale. Non è una provocazione e non è nemmeno una casualità che quella cifra compaia lì, all’inizio del disco: la consapevolezza che da quando veniamo al mondo abbiamo all’incirca 71 anni da vivere su questo pianeta è la coscienza della nostra finitezza e caducità, ed è ciò da cui prende il via questa prima raccolta di inediti firmata da Brondi con nome e cognome. Di più, è la premessa indispensabile per comprendere appieno il pensiero espresso dal cantautore oggi 37enne in questo lavoro così strettamente legato al precedente Terra (quarto e ultimo targato Le Luci della Centrale Elettrica), ma con una differenza: nel mentre è esplosa una pandemia tuttora in corso, quel che ci attende è una ripartenza che per molti sarà inevitabilmente uno slalom tra le macerie. E allora il Vasco che già nel 2017, in Qui, ci aveva suggerito che “è un superpotere essere vulnerabili”, accettare le proprie fragilità, non celarsi dietro a false maschere, rilancia: “Visti dai satelliti siamo insetti, lievi e provvisori (…). No, non nascondere le ali, puoi leggermi nei pensieri, siamo animali strani, abbiamo poteri, poteri soprannaturali”. E poco dopo: “Siamo qui per rivelarci, non per nasconderci”.

È questo il superpotere di cui parla Vasco Brondi, non quello di una tecnica che da strumento per rendere più confortevoli le nostre quotidianità ha finito per assoggettare ogni cosa alla razionalità delle macchine, al paradigma della funzionalità e della performance, a un mito del progresso senza limiti quantomeno discutibile. Perché cos’è davvero il progresso? Renderci immortali? Portarci su Marte quando il resto sarà distrutto? Sì, se si aderisce a una visione antropocentrica e ci si illude che fine ultimo della specie umana sia il dominio dell’ambiente che la ospita, come se cieli, mari, montagne, prati, deserti, ghiacciai e addirittura l’intero universo fossero di nostra proprietà, materia da sfruttare a piacimento per i nostri obiettivi. Ma è un’illusione, un abbaglio che acceca e che, del resto, ci si sta già ritorcendo contro. Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema: così si diceva nelle prime settimane di convivenza col virus. Ora, invece, pare non si possa più rinunciare a niente, siamo già in corsa contro il tempo, e Brondi non ne fa certo un’analisi politica, le sue canzoni non sono comizi né manifesti militanti, ma sono flussi di coscienza e schegge esistenzialiste musicate, in cui ciò che il nostro tenta di illuminare con le parole è la spinta vitale che alberga nelle viscere e nel cuore, quella che nutre i desideri, le nostre intime battaglie, le ribellioni individuali che possono avvicinare coloro che le perseguono nonostante il contesto sfavorevole.

Sotto questo profilo l’immagine di copertina di Paesaggio dopo la battaglia – titolo che rimanda a un film di Andrzej Wajda del ’70 – è eloquente: si tratta di uno scatto del grande fotografo emiliano e narratore di periferie Luigi Ghirri, in cui si vede una Panda avanzare su una stradina di campagna in quel di Bodeno, fuori Ferrara, lasciandosi alle spalle una tempesta. Non un macchinone, ma un Pandino scalcagnato e polveroso, in rappresentanza di tutti noi che ci siamo ritrovati nel bel mezzo della catastrofe totalmente impotenti, noi che siamo solo “forme di vita nel terzo pianeta del sistema solare”, provvisori e mortali, appunto, ma che comunque sia tiriamo avanti, continuiamo a lottare per le nostre passioni, per le nostre amicizie, per le nostre famiglie, ma anche per vivere secondo le nostre visioni, per assicurarci la libertà di essere autentici. “Amate e fate quello che volete”, canta Vasco in quell’inno appena remixato da Jovanotti che è Ci abbracciamo, trasformando una frase di Sant’Agostino in un mantra laico e insieme spirituale, lui che per quell’autenticità ha voluto a tutti i costi – così ha dichiarato – autoprodursi il disco per non dover scendere a compromessi con nessuno.

Ma non è una battaglia solitaria, quella di Vasco e che Vasco invoca: lo spunto sono i viaggi, i momenti di solitudine e contemplazione, lo spazio poetico offerto dalla natura e i nidi che sappiamo costruirci nei posti più impervi come gli animali – parafrasando alcuni suoi versi – ma poi ci sono gli amori, i legami, le affinità elettive con chi come noi, in questo vagare per lande colpite da uragani, per città attraversate da rider al servizio di multinazionali, ma anche per i sentieri di montagna, i torrenti più incontaminati e sulle rive degli oceani, avverte la limitatezza del nostro essere nel mondo non come un peso da rimuovere, ma come una forza misteriosa e trainante, un sentire comune che indipendentemente da ogni contesto e condizione può spingere a volare, alleviare, unire. “Ci sarò sempre per te, attraverso le ere cosmiche, da una vita all’altra, infrangendo leggi fisiche”, canta Vasco richiamando il Battiato de La cura. E in Luna crescente: “Adesso dove ti trovi? Qui la luna è calante, da dirti non ho niente, era solo per sentire che siamo ancora vivi, contemporaneamеnte”. O ancora, in quella dolcissima canzone d’amore che è Due animali in una stanza: “E anche sul pianeta Terra tutto cambia, e forse ci sarà una guerra per l’aria, ma noi due a dire ancora, ancora, ancora”. Quella che si delinea è un’epica delle piccole storie che procedono nella Storia. Perché il punto è resistere, non mollare, andare avanti, come quel Pandino che avanza con i fanali accesi tra i campi.

Per tutti questi motivi ascoltare il Vasco Brondi di Paesaggio dopo la battaglia, disco prodotto con Federico Dragogna e Taketo Gohara che accosta momenti più essenziali ad arrangiamenti quasi da fanfara e che è il racconto di una ricerca incessante messo in musica con fiati e archi, un coro, sintetizzatori, percussioni, un piano e qualche chitarra, significa ricordarci chi siamo al di là dei ruoli sociali, malgrado i “mille governi” che si avvicendano sopra le teste, nonostante la precarietà che ci rende funamboli, a dispetto dei decreti restrittivi entrati in gioco con l’emergenza sanitaria in un Paese che “ha bisogno di gente piena di dubbi”. Ricordarci chi siamo e “fare caso a quando siamo felici” – come già suggeriva Vasco quattro anni fa nell’intensa A forma di fulmine – mettendoci in discussione, rispettando chi ha bisogno di scappare come chi resta, nutrendo l’umanità che risiede in noi per farla espandere nell’incontro e nella condivisione con l’altro, con chi riesce ancora a cogliere il valore della verità e non scambia l’empatia con un post su Instagram, con chi riconosce che di fronte agli sbagli “siamo animali senza istinto, quindi ancora peggiori”, con chi sa che “le leggi dell’universo non sono quelle di questa città” e “non confonde le nostre brevi vite con l’eternità”, come ci rammenta l’ultima traccia dell’album, Il sentiero degli dei. Non è nichilismo, e non è nemmeno la rinuncia dell’ex punk incendiario che diventa pompiere. Piuttosto, in un’epoca di crescente conformismo, è un superare l’inganno delle ombre e appostarsi fuori dalla caverna per illuminare ciò che conta, è dire basta all’iperconnessione e alla vanità vacua, è smettere di puntare al dominio di ciò che non si può controllare per regalarci la possibilità di seguire i nostri ideali senza preoccuparci di null’altro, nemmeno del successo.

Vasco Brondi - IL SENTIERO DEGLI DEI | Paesaggio dopo la battaglia

“La musica adesso è un’altra cosa, tutti cercano di sponsorizzarti, musica e alta moda”, osserva Vasco in Chitarra nera, sorta di preghiera priva di struttura metrica nonché il brano meno adatto del lotto a essere lanciato come singolo e diventato, invece, il biglietto da visita di questo nuovo album di Brondi perché così voleva e così, infatti, è stato. E sì, oltre a Platone possiamo chiamare in causa decine di altri filosofi, scrittori, poeti, cantori e visionari che sembrano affiorare a ogni strofa e ritornello di Paesaggio dopo la battaglia, dal succitato Battiato a De Gregori, da Pasolini a Fenoglio, da Ungaretti a Thoreau, da Elizabeth Bishop a Primo Levi, da Calvino a Deleuze, da Tiziano Terzani ai CCCP/CSI di Giovanni Lindo Ferretti. Senza contare che da tempo l’ex Le Luci della Centrale Elettrica si è avvicinato alle filosofie orientali, pratica yoga e meditazione, ama camminare nei boschi, frequenta monasteri buddisti. Ma alla fine ognuno nella musica trova i propri riferimenti, è questo il valore delle canzoni intese in senso brondiano come “talismani per tempi incerti”, come “richiami per gli esseri umani”, come rifugi e mappe per tutti coloro a cui non interessa tanto espandersi orizzontalmente (espressione sua), quanto scavare verticalmente, scendere in profondità per catturare la vita che pulsa nella sua purezza.

In più occasioni Silvano Agosti – regista, scrittore e poeta da sempre osteggiatore di quella realtà mercificata che rischia di ridurre l’essere umano a mero simulacro – si è definito uno spacciatore di vita. Ecco, dopo un lungo percorso avviato discograficamente nel 2008 con Canzoni da spiaggia deturpata, è questo il Brondi di oggi, il nostro pusher di sostanze eteree che fanno bene all’animo, di quel soffio vitale che infonde fiducia e dona respiro anche quando manca l’aria. E a prescindere dalle classifiche, chi negli ultimi anni è stato almeno a un suo concerto sa che attorno alla sua figura si stringe ormai una comunità di uomini e donne, di ragazzi e ragazze, che vibrano all’unisono, al ritmo dei suoi stessi sogni che non puzzano minimamente di marketing, ma, al contrario, profumano di sentimento.

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