Una lunga notte d’amore e paura: la recensione originale di ‘Born to Run’ di Bruce Springsteen | Rolling Stone Italia
Buona la terza

Una lunga notte d’amore e paura: la recensione originale di ‘Born to Run’

L’album del boom di Bruce Springsteen compie oggi 50 anni. Ecco come lo raccontava all’epoca uno dei padri nobili della critica americana che aveva avuto più d’un dubbio sui primi due dischi del rocker del Jersey

Una lunga notte d’amore e paura: la recensione originale di ‘Born to Run’

Bruce Springsteen nella photosession di ‘Born to Run’

Foto: Eric Meola

Vivo da tempo sulla West Coast e quindi il clamore suscitato negli ultimi due anni dai concerti di Bruce Springsteen sulla costa orientale m’ha fatto sentire privato di qualcosa dal punto di vista culturale, per non dire che m’ha reso un tantino sospettoso. Le esibizioni leggendarie di tre ore che Springsteen e la sua E Street Band pare facciano sera dopo sera a New York, a Provincetown, a Boston e perfino ad Austin hanno avuto una grande eco, ma a meno di prendere l’aereo e farsi 5000 chilometri solo per assistere a un concerto non c’è stato modo per chi non vive da quelle parti di saperne di più.

Di sicuro non riesco a trovarne le ragioni di tanta eccitazione nei primi due album di Springsteen, nonostante la campagna promozionale della Columbia che presentava l’esordio come l’opera d’un nuovo Dylan e nonostante lo slogan “poeta di strada” appiccicato sulla copertina del secondo. Entrambi trasudavano grande consapevolezza di sé, mentre il battage pubblicitario faceva sperare in un nuova, grande rockstar egotica come quelle del passato. Ma entrambi i dischi sembravano monotoni e un po’ isterici, pieni di suono e furia, ma con ben poco o nulla da dire.

Con un po’ di senso di colpa, trovavo più soddisfacente qualsiasi cosa fatta dai Roxy Music. Almeno loro colpivano l’obiettivo che si prefiggevano, mentre era ovvio che Springsteen puntava a qualcosa di più e quei dischi mi facevano dubitare che nemmneo lui sapesse esattamente cosa. Che lo sapesse o meno, con due album alle spalle e l’etichettata «dovresti vederlo da vivo» appiccicata addosso, la possibilità che Springsteen lasciasse un segno nella storia del rock – o almeno che continui ad avere qualche chance di farlo – dipendeva dal terzo album, che era «atteso da tempo» prima ancora che l’inchiostro del secondo si fosse asciugato. Prima o poi insomma avrebbe dovuto dimostrare di essere all’altezza oppure tacere. È il grande duello del rocker con sé stesso: il ragazzo promettente cade nella polvere e l’eroe si gira lentamente, soffia il fumo che esce dalla pistola e se ne va per la sua strada. Oppure cadono sia ragazzo che l’eroe, contorcendosi nella polvere mentre gli spettatori distolgono lo sguardo e parlano di come potevano andare le cose. Fine. Dissolvenza.

La risposta di Springsteen è Born to Run. È un album magnifico, che ripaga chi ha scommesso su di lui, è una Chevrolet del ’57 che corre alimentata da dischi dei Crystals e che annulla ogni cosa detta finora su di lui. È il disco che dovrebbe spalancargli le porte del futuro.

Anche solo i titoli delle canzoni – Thunder Road, Night, Backstreets, Born to Run, Jungleland – suggeriscono il carattere straordinariamente drammatico della nuova musica di Springsteen. È il dramma che conta. Le storie che racconta non sono nuove, anche se nessuno le ha mai raccontate meglio, né rese così profonde. La familiarità è metà della loro forza: la promessa e la minaccia rappresentate dalla notte, il richiamo della strada, la ricerca di un’occasione che valga la pena cogliere e la brama di pagarne il prezzo, ragazze intraviste una volta sola a 130 all’ora e mai dimenticate, le strade della città come ultima, permanente frontiera americana. Conosciamo la storia: mille e una notte americana, una lunga notte d’amore e terrore.

La novità sta nella maestosità con cui Springsteen e la sua band raccontano questa storia. Il canto di Springsteen, i suoi testi e la musica della band hanno trasformato i sogni e i fallimenti di due generazioni in un’epopea iniziata quando l’auto di Gioventù bruciata è precipitata giù dal burrone. Si ha la sensazione che tutto ciò che quella scena ha significato e ha voluto dire sia dentro quest’album, fatto con una determinazione che pensavo impossibile da anni. Si ha la sensazione cioè che la musica che Springsteen ha tratto da questa lunga storia abbia superato la storia stessa. Che sia, in tutto il suo fuoco, una richiesta di qualcosa di nuovo.

In un certo senso, tutto questo parlare di epopea si riduce a una questione di sound. Il collaboratore di Rolling Stone Jon Landau, Mike Appel e Springsteen hanno prodotto Born to Run con uno stile quanto più vicino al mono che oggi si può ottenere. Il risultato è un suono grandioso. Deve qualcosa a Phil Spector, ma può essere paragonato soltanto alla musica che Bob Dylan e gli Hawks suonavano dal vivo tra il ’65 e ’66. Con quel suono, Springsteen ha ottenuto qualcosa di speciale. Ha dato al suo mondo un tocco di gloria senza glorificare alcunché, né il romanticismo della fuga, né l’insostenibile pathos della rissa di strada di Jungleland, né i giovani amanti spaventati di Backstreets, e neppure sé stesso.

Born to Run, nato per correre, è il motto che riassume i racconti dell’album, così come la figura di chitarra del brano – la migliore rappresentazione delle emozioni rock dai tempi degli accordi iniziali di Layla – dà voce alla sua musica. Ma Born to Run è pericolosamente vicino a un altro talismano dei ragazzi perduti che sfrecciano nel disco, uno slogan che il motto di Springsteen inevitabilmente richiama. È un vecchio tatuaggio che dice “Born to lose”, nato per essere sconfitto. Le canzoni di Springsteen, piene come sono d’immagini di persone abbandonate, rannicchiate, spaventate, in lacrime, morenti, sono ambientate nello spazio fra “born to run” e “born to lose”, come a dire che l’unica corsa che vale la pena fare è quella che ti costringe a rischiare di perdere quel che hai. Solo correndo quel rischio puoi mantenere intatta la certezza di avere ancora qualcosa da perdere. Gli eroi e le eroine di Springsteen affrontano il terrore e sopravvivono, affrontano la gioia e soccombono a causa di essa, e poi vedono il processo invertirsi, comprendendo infine che stanno pagando il prezzo di aver romanticizzato la propria paura.

“Un’estate tenera e soffocante / Io e Terry siamo diventati amici / Cercando invano di respirare / Il fuoco in cui siamo nati… / Ricordi tutti i film, Terry / Che andavamo a vedere / Tentando di imparare a muoverci come gli eroi / Che pensavamo di dover essere / Ebbene, dopo tutto questo tempo / Scoprire che siamo come tutti gli altri / Bloccati nel parco / E costretti a confessare che… / Ci nascondiamo nei vicoli / Ci nascondiamo nei vicoli / Dove ci siamo giurati eterna amicizia…”.

Sono alcuni versi di Backstreets, una canzone che comincia con una musica talmente solenne e straziante da sembrare il preludio a una versione rock dell’Iliade. Una volta che pianoforte e organo hanno stabilito il tema, arriva il resto della band e lo suona di nuovo. C’è la sensazione di ascoltare una cosa che conosci bene: no, non hai mai sentito niente del genere prima, ma lo comprendi all’istante, perché questa musica, o Springsteen che geme sulle ultime linee di chitarra di Born to Run o gli accordi stupefacenti che seguono ogni strofa di Jungleland o l’apertura di Thunder Road, è esattamente quel che il rock’n’roll dovrebbe essere.

Le canzoni, le migliori almeno, sono avventure nel buio, racconti di furia sprecata. Sono storie di ragazzi nati per correre che comunque perdono. I pezzi, come nel caso di Backstreets, possono colpire in modo così forte e rapido che è quasi impossibile ascoltarli senza piangere. Eppure la musica è esaltante. Ti ritrovi a scuotere la testa incredulo, a sorridere tra le lacrime per la bellezza di tutto questo. Non sto parlando dei testi; sono sepolti, come dovrebbero, difficili da distinguere per i primi dieci, dodici ascolti, emergono solo a brandelli. Sentire Springsteen cantare “hiding on the backstreets” significa essere catturati da un’immagine; i dettagli possono venire dopo. Chi mai ha avuto bisogno di capire tutte le parole di Like a Rolling Stone per afferrarne il senso?

È la misura della capacità di Springsteen di far sanguinare la sua musica il fatto che Backstreets, che parla d’amicizia e tradimento tra un ragazzo e una ragazza, sia molto più letale di Jungleland, che parla invece di una guerra tra bande. La musica non è migliore, né lo è il canto, ma è più appassionata, più micidiale e quindi più viva. Potrebbe essere la chiave di questa musica: è una corsa nel terrore che si risolve in una corsa verso la gioia.

“Oh-o, vieni, dammi la mano”, canta Springsteen, “andiamo a cercare la terra promessa”. Ecco Born to Run riassunto in un verso. Prendi quel che trovi, ma non rinunciare mai a pretendere qualcosa di meglio perché in fondo al cuore sai che lo meriti. È questa contraddizione che mantiene viva la storia di Springsteen, e quella della terra promessa. Springsteen ha preso ciò che ha trovato e ne ha fatto qualcosa di meglio: questo disco.

Da Rolling Stone US.

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