Una giornata nello studio di Mina | Rolling Stone Italia
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Una giornata nello studio di Mina

Ecco che cosa succede quando entri nella sala d’incisione dove lei canta, ti siedi sulla sua poltrona, sfiori registratori e strumenti d'epoca, vedi un pezzo di storia materializzarsi sotto gli occhi

Una giornata nello studio di Mina

Nel mio salotto c’è un autografo di Mina, lo tengo incorniciato ed esposto un po’ per caso davanti agli scaffali della libreria dedicati ai volumi di poesia, accanto a una cartolina che riproduce il dipinto di un mazzo di fiori fatto da David Hockney e a un’action figure di Elvis Presley intento in un passo di danza mentre afferra il microfono con una mano. Sulla cartolina con il suo viso Mina mi fa una dedica, usa il mio nome e aggiunge i suoi auguri di buon Natale, in alto una piccola data che ora è rimasta coperta dalla cornice e in basso, in mezzo, più grande, le quattro lettere del suo nome, la sua firma.

Quando ho ricevuto questo regalo, una mattina di alcuni anni fa, come si può intuire a pochi giorni da Natale, per ore e ore l’ho tenuto sul tavolo dove lavoravo e dopo un po’ anziché essere molto felice di avere con me quella piccola testimonianza di esistenza e quel saluto ho cominciato a immalinconirmi immaginando Mina nella sua casa a Lugano circondata da cumuli di cartoline col suo viso, forse in qualche modo costretta a firmarle dedicandole una a una a tutti quelli che come me si erano trovati a non più di un grado di separazione da lei e ai quali, non foss’altro per accontentare proprio quel grado di separazione, sentiva di non potersi sottrarre. Mi è sempre dispiaciuto pensare a Mina accerchiata dai fotografi, dalla curiosità morbosa, Mina rincorsa, immortalata ogni anno mentre spalanca le persiane di casa, tutti quegli è ingrassata, è dimagrita, tutti i tornerà e i non tornerà, le ombre dietro i cancelli e le siepi sulle foto sfocate delle riviste di gossip, tutta quella danza che è quel voler le cose com’erano prima per il gusto di averle e basta, quando invece alcune volte è così sufficiente che esistano perché tu possa amarle per sempre anche se non le puoi toccare.

Quando nella primavera del 2018 Rolling Stone mi scrisse che Mina, in occasione della presentazione alla stampa del suo nuovo album Maeba, avrebbe aperto per un giorno e per la prima volta ai giornalisti le porte del suo famoso PDU Recording Studio che aveva la sua sede originaria a Milano, ma si era spostato con lei a Lugano, neppure per un momento ho pensato seriamente che, prescelta per questa incredibile missione, l’avrei vista in carne e ossa. Ho cominciato invece a visualizzare il mistero in cui io e altri come me ci saremmo immersi quel giorno, l’esperienza condivisa della forza del non visibile, del segreto, di una costante presenza mai presente.

A Lugano arriviamo in auto da Milano, condotti, a gruppi di da cinque o sei, da questi autisti che immaginiamo costretti a dimenticare tutto dopo averci accompagnati in questi mini van con i vetri oscurati, autisti che durante il viaggio inizio a pensare siano come dei Men in Black prestati per un giorno alla storia della canzone italiana e che come in un thriller dovranno scontare in qualche modo il fatto di conoscere l’indirizzo del luogo proibito. Ci sono cose che non farai mai, anche se fai questo lavoro, se sei nato negli anni ’80 e lo devi sapere, tra queste c’è il fatto di vedere Mina alla Bussola dal vivo, incontrarla o farle un’intervista. Sono cose che non solo non puoi permetterti di rincorrere, ma cose che la storia ha già deciso per te, delle ineluttabilità assolute con cui devi fare i conti punto e basta. E io i conti li ho fatti da quanto ero ragazzina e Mina era già il sogno, il mucchio di 45 giri da provare sul giradischi di mia zia, l’LP da comprare ogni anno regolarmente, la figura in movimento, intelligente oltre la voce, nelle regie e nelle scenografie di Studio Uno riproposte dalla RAI appena c’è occasione di farlo, cantare Brava davanti allo specchio scoprendo che pure Una zebra a pois è troppo difficile per te, un bacio adolescente alle cabine dello stabilimento Tintarella di Luna perché le canzoni, se le ami lo scopri molto presto, diventano cose, realtà fisiche, oggetti, corpo, quando squarciano il velo del tempo mostrandosi nella loro più assoluta inossidabilità.

E allora entrando in studio, salutando chi offre un ricco buffet di dolci, di salatini, bevande di ogni sapore, lo stomaco ovviamente si chiude, e mentre qualcuno beve e afferra pasticcini più e meno timidamente, il mio corpo si muove cercando di essere il più attento e accurato possibile negli spazi vuoti: non toccare niente, non far cadere niente, ma rapisci ogni cosa, metti a fuoco, porta via con gli occhi il ricordo, costruiscilo. Pile di dischi di musica classica nella hall e dischi di jazz, riviste impilate in verticale dalle coste insondabili, una riproduzione a misura quasi originale della nostra negli anni ’70, in minigonna, alle mie spalle. Gli strumenti sono ovunque, anche se ancora non siamo entrati nello studio, vedo registratori d’epoca appoggiati ai muri, due pianoforti, una quantità non registrabile di fotografie ai muri e partiture e tracce.

Sono l’ultima del mio gruppo a entrare in studio accompagnata da Massimiliano Pani, figlio e da anni anche produttore del lavoro di Mina, quando arrivo è rimasta solo la sedia regale, quella esattamente al centro del banco, la sedia dove nessuno ha osato sedersi, perché lì, mi dice Pani facendomi cenno di non avere esitazioni che in effetti non ho, “si siede sempre lei, perché quello è il punto in cui si sente meglio”. Solo quando ci siamo tutti e la porta è chiusa inizia l’ascolto del disco a partire dalla prima traccia, Volevo scriverti da tanto. Non appena il cantato attacca è tutto chiaro: non abbiamo mai ascoltato niente in modo così chiaro, perfetto, nitido e assoluto come in quel momento, perché certo, la situazione, il buio oltre il vetro, in quello spazio dove lei registra dove ora la luce è rimasta spenta e quel senso di mistero che risale vivo a ogni acuto, quel pensiero che forse in quel buio mentre la ascoltiamo cantare dai nastri originali lei ci sta guardando, sta ridendo, sorridendo dei nostri volti, certo la magia, insomma, ma anche la tecnologia e la tecnica sanno fare la propria parte e qui Pani, ci mostrerà a breve, la tecnologia non manca e attraversa i decenni e pure i due secoli, partendo da macchine degli anni ’60 e arrivando fino a oggi.

Qui, in questo studio, ci sono strumentazioni ormai perdute quasi ovunque che artisti di tutto il mondo chiedono di poter utilizzare in prestito, ci sono reperti che smettono di essere tali e continuano a essere strumenti musicali, assolvendo la propria funzione originaria. Mina, la chiama suo figlio, fa tutto, vede tutto, ascolta tutto, le arrivano a casa circa 3000 dischi l’anno e lei non fa altro che ascoltare la musica che in questi 3000 dischi chiede la sua voce, per poi decidere e incidere. Due take, mai di più, il primo, che di solito è quello definitivo, e il secondo “per sicurezza”. Già, certo, il secondo per sicurezza. “Fa ogni cosa dalla stanza dei bottoni, è il capo, anche il mio e noi al massimo possiamo darle dei consigli”, ci dice Pani, e allora giù a immaginare dove sarà questa stanza dei bottoni, se c’è qualche telecamera che ci sta vedendo ora, se uno di quei 3000 dischi è stato messo momentaneamente in pausa perché dal divano lei possa sogghignare vedendo questi sedicenti esperti della ‘canzonetta’ seduti al suo posto.

La luce dietro il vetro si accende ma lei, ovviamente, non c’è. Ci sono però il suo pianoforte gran coda appartenuto originariamente ad Arturo Benedetti Michelangeli che se l’era fatto costruire su misura ma che poi, da perfezionista oltre ogni perfezione quale era, lo aveva rifiutato subito per un Do che, a suo avviso, suonava male e c’è quell’Hammond C3 dove l’abbiamo vista cantare con Lucio Battisti. Appiccicata accanto al leggio una piccola fotografia in bianco e nero, Pani ce la indica, è proprio la foto di lei e Battisti seduti a quello stesso strumento.

Come bambini abbiamo l’aria sconvolta dai giochi, gli occhi rapiti dal museo, le 16 piste del registratore Ampex vintage visto di soppiatto, quell’amplificatore Fender del ’78 che resiste ai mondi e che hai visto mille volte ma che anche lei utilizza e tutto il resto. Lo strumento più raro e quello più comune partecipano al racconto sonoro della nazione e a un incalcolabile numero di storie private nello stesso istante e con la stessa forza e ora sono lì, davanti ai nostri occhi mentre fuori scende la sera. E allora viene semplice immaginare Mina di nuovo in salotto pronta a premere quel bottone che ci rispedirà, su una corsia d’autostrada che costeggia il lago per addolcirci ulteriormente la fiaba, là dalla realtà da cui siamo venuti, con quegli LP, quei 7 pollici, quelle Milleluci che solo nel non essere sfiorate, lei lo sa, hanno il destino di non spegnersi mai.

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