Un disco di perdenti con una musica da vincenti: la recensione originale di ‘Born in the U.S.A.’ | Rolling Stone Italia
1984-2024

Un disco di perdenti con una musica da vincenti: la recensione originale di ‘Born in the U.S.A.’

Il 4 giugno 1984 usciva il best seller di Bruce Springsteen. Ecco come ne scriveva all’epoca Rolling Stone: un album diverso, sì, ma perfettamente inserito nella storia e nella poetica del rocker

Un disco di perdenti con una musica da vincenti: la recensione originale di ‘Born in the U.S.A.’

Bruce Springsteen nel 1984

Foto: Aaron Rapoport/Corbis/Getty Images

Born in the U.S.A. è un disco su tempi duri e gente ordinaria che vive in cittadine ordinarie e deve scegliere tra andarsene ed essere lasciata indietro. Eppure ha qualcosa di tumultuoso e indomito. Prendete Darlington County, racconta di due ragazzi che arrivano in una cittadina di provincia in cerca di lavoro, eppure il ritornello è tutta una festa di “sha-la-la”. Bruce Springsteen spinge i suoi personaggi fuori casa e in giro per l’America, ma per lo meno dà loro musica con cui tenere il tempo battendo le mani sul cruscotto.

Springsteen abbina canzoni dai testi crudi come quelli dell’album acustico Nebraska a musiche dalle inedite tessiture elettroniche, senza allontanarsi dall’essenza del rock’n’roll tipicamente anni ’60. Come i protagonisti delle canzoni, anche la musica è born in the U.S.A. Springsteen ha bypassato la British Invasion per abbracciare la tradizione di Phil Spector, il soul dell’Atlantic e soprattutto l’eredità delle garage band che centravano bizzarre hit radiofoniche. Si è sempre ispirato al sentimento utopico espresso da quella musica e lo cattura qui con una produzione sofisticata e sottili cambiamenti d’ambientazione sonora da un pezzo all’altro.

I personaggi che abitano le sue nuove canzoni temono di rimanere intrappolati nelle cittadine in cui sono cresciuti quasi quanto temono che il mondo là fuori non offra loro alcuna possibilità ed è un tema, questo, ricorrente nell’opera di Springsteen. Finiscono per tornare a casa e puoi quasi vedere gli scarafaggi che s’aggirano attorno alle confezioni vuote di Twinkies nelle loro cucine in linoleum. Nel primo verso della prima canzone, Springsteen urla che è “nato in una città di morti, il primo calcio che ho preso è stato quando son venuto al mondo”. È gente che nasce già col cuore spezzato e l’unica cosa che la fa andare avanti è immaginare, come dice il verso di un’altra canzone, che da qualche altra parte sta succedendo qualcosa.

I protagonisti di queste canzoni muoiono dal desiderio di ottenere la ricompensa promessa dal sogno americano. La voce mai così esuberante di Springsteen e la potenza della musica ci fanno capire che non si sono ancora arresi. In No Surrender, un pezzo che ha lo stesso effetto rinvigorente di Thunder Road, Bruce canta: “Abbiamo promesso, abbiamo giurato che non avremmo mai scordato, nessuna ritirata, nessuna resa”. È un giuramento tipico della musica di Springsteen, che scrive poi un messaggio straziante intitolato Bobby Jean rivolto presumibilmente al suo chitarrista di lunga data Miami Steve Van Zandt, che ha da poco lasciato la band: “Forse sarai là fuori su quella strada da qualche parte… in qualche stanza di motel ci sarà una radio accesa e mi sentirai cantare questa canzone… Beh, se succederà, sappi che sto pensando a te e a tutti i chilometri che ci separano”. È un classico di Springsteen. Il testo ti fa venire il groppo in gola, ma la musica dice: cammina a testa alta o non camminare affatto.

Forse perché è lui stesso un bravo ballerino, Springsteen infonde ritmi contagiosi ai pezzi. Nella splendida ed esuberante I’m Goin’ Down piazza una corsa vertiginosa di sillabe senza senso nel ritornello, mentre il batterista Max Weinberg scandisce un backbeat gigantesco. E Working on the Highway è un pezzo rock estatico coi battimano che tengono il tempo di una storia su delitto e castigo. Cambiando leggermente il sound, la band evoca il giusto senso di paranoia in Cover Me, l’unica canzone in cui si risente la chitarra stridente di Badlands, e il fervore del veterano del Vietnam in Born in the U.S.A. Forse non c’è una gran differenza fra queste canzoni e alcune dell’ultimo disco rock di Springsteen, The River, ma le nuove sembrano più deliziosamente semplici.

I pezzi rock rappresentano il baricentro del disco, ma quattro canzoni, le ultime due d’entrambi i lati, gli conferiscono una profondità straordinaria. Springsteen sa raccontare storie meglio di quanto non sia in grado di scrivere un ritornello orecchiabile e questi testi dimostrano che è di un’altra categoria. Sono cantati senza alcun effetto, con un’asprezza che t’ammazza. In My Hometown ricorda di quando stava seduto sulle ginocchia del padre alla guida della Buick di famiglia in città. Il ragazzo cresce e nell’ultima scena è lui a mettere sulla gambe il figlio per un ultimo giro in quelle stesse strade che nel frattempo sono diventate file di edifici abbandonati. “Guardati bene attorno”, dice al figlio ripetendo quel che gli aveva detto il padre, “questa è la città in cui sei nato”.

Il desiderio divora il protagonista di I’m On Fire: “A volte è come se qualcuno prendesse un coltello, baby, tagliente e smussato, e facesse un taglio di 15 centimetri nel bel mezzo del mio cranio”. La band qui è ridotta a un leggero rantolo di batteria, un organo soft e a note di chitarra quiete e staccate, e dà un carattere minaccioso alla lussuria. Puoi quasi immaginare un tipo butterato alla Harry Dean Stanton sdraiato in una stanza di motel, troppo nervoso per dormire.

Se le canzoni trasmettono un’idea tanto vivida dei personaggi è perché Springsteen dà loro voci di cui un drammaturgo sarebbe orgoglioso. In Working on the Highway gli basta dire che “un giorno l’ho guardata negli occhi e lei ha ricambiato lo sguardo” per farci capire che il ragazzo è innamorato. E nella canzone più triste di sempre di Bruce, Downbound Train, un uomo che ha perso tutto racconta la sua storia, mentre dietro di lui lunghe note sconsolate di synth evocano il dolore che prova. “Avevo un lavoro, avevo una ragazza”, esordisce per poi spiegare che ogni cosa è cambiata: “Ora lavoro giù all’autolavaggio, dove non fa altro che piovere”. È una battuta degna di Sam Shepard ed è talmente patetica e assieme divertente che non si sa come reagire.

La canzone che più s’allontana dallo Springsteen che conosciamo è il primo singolo Dancing in the Dark per via del suono dei sintetizzatori suonati dal tastierista della E Street Roy Bittan, del basso e della batteria dal suno tonante. Il ragazzo che balla nell’oscurità è consumato dalla consapevolezza d’avere 16 anni. “Mi guardo allo specchio, voglio cambiare i vestiti, i capelli, la faccia”, canta. “Amico, non vado da nessuna parte vivendo in una topaia come questa”. Se spegne le luci non è per creare un’atmosfera romantica, è per seguire le fantasie evocate dalla musica che passa in radio. E lì, al buio, trova una forma di liberazione da tutti i suoi limiti. Lì al buio, come tutti i ragazzi intrappolati nelle canzoni di Springsteen, è solo uno spirito nella notte.

Da Rolling Stone US.

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