Tutti volevano essere liberi come David Crosby | Rolling Stone Italia
L'anticonformista

Tutti volevano essere liberi come David Crosby

Un ritratto di Croz firmato da un giornalista che l’ha conosciuto. A volte ispirato e a volte irascibile, a volte in palla e a volte poco lucido, diceva e faceva quel che voleva, fregandosene di morale e convenienza

Tutti volevano essere liberi come David Crosby

David Crosby

Foto: Sulfiati Magnuson/Getty Images

Di concerti ne ho visti, ma pochi sono stati deprimenti come la prima volta in cui sono andato a sentire David Crosby. Erano i primi anni ’80 e lui s’esibiva da solo alla Town Hall di New York. Era lievemente sovrappeso, trasandato e scarmigliato, con una maglietta floscia e pantaloni larghi. S’è piazzato su una sedia di legno. La voce era lievemente più stridula di quella che si sente nei dischi. Nessun sorriso e zero chiacchiere sul palco. A un certo punto ha sbadigliato guardando l’orologio, come se non vedesse l’ora di andare a farsi un riposino. All’epoca, senza internet, non si era costantemente aggiornati su ogni cosa e quella performance mesta ha avuto tristemente senso solo quando s’è saputo che aveva un problema di dipendenza dalla droga.

Ecco perché la notizia della morte di Crosby è stata scioccante, ma anche no. Era uno dei grandi libertini del rock, in vita sua s’è imbarcato in mille avventure e disavventure tra cui, non molto dopo quel triste concerto, nove mesi di carcere per possesso di stupefacenti.

Le cadute di Crosby sono le cadute di una generazione, ma ripensando a come ha vissuto viene da pensare che molti volevano essere David Crosby o almeno somigliargli, che lo ammettano o meno. Dipende da quale Crosby volevi essere.

I problemi con la legge non dovrebbero mettere in ombra la musica di Crosby. A tanti anni di distanza è difficile spiegare a parole cosa significava ascoltare per la prima volta Guinnevere (a volte scritta con una sola enne). Sull’album Crosby, Stills & Nash arrivava dopo Suite: Judy Blue Eyes di Stills e Marrakesh Express di Nash. Due canzoni che le radio passavano e poi questo pezzo senza batteria, né ritornello facile, una strana metrica, armonie statiche come un lago ghiacciato. Quando ho comprato una raccolta di spartiti di Crosby, Stills, Nash & Young e ho provato a suonare Guinnevere e Déjà Vu avevo gli accordi giusti, ma anche tenendo conto del fatto che avevo per le mani una sei e non una dodici corde quel che ne usciva non somigliava neanche lontanamente a quel che sentivo sul disco. Come diavolo faceva? (Ho poi scoperto il segreto: l’accordatura aperta).

Crosby non ha mai avuto la fama dell’innovatore musicale tipo Hendrix o Stills. Ma in pezzi come Guinnevere riusciva comunque a portare il rock in luoghi sconosciuti e del resto era cresciuto ascoltando Bach, non Chuck Berry, e i pezzi che creava, che fossero per i Byrds, CSN, CSNY o solisti, erano spesso unici, non convenzionali o decisamente strambi.

Dopo aver lasciato i Byrds non è più tornato a quel suono, specialmente dopo la morte della sua ragazza Christine Hinton in un incidente automobilistico avvenuto nel 1969. Di scrivere pezzi cantichiabili su autostrade e giornate assolate non se ne parlava più. Al loro posto, ecco le canzoni sul disorientamento esistenziale di If I Could Only Remember My Name. È un tipo di sensibilità che Crosby non ha messo da parte neanche dopo essersi ripulito, si vedano gli album che ha fatto negli ultimi dieci anni, specialmente Lighthouse del 2016.

E poi chiaramente ci sono tutti quei piccoli, grandi momenti disseminati nella sua carriera. La risata in Anything at All di CSN che serve a bilanciarne la pomposità. Il frammento parlato prima di Marrakesh Express. Le armonie da ragazzaccio del coro che ha aggiunto a Doctor My Eyes o For Everyman di Jackson Browne o alla versione di The Water Is Wide di Roger McGuinn. La sfuriata sulla Commissione Warren al Monterey Pop. L’esilarante discussione in studio con i Byrds durante la registrazione di The Notorious Byrd Brothers, immortalata nella versione deluxe del disco, con Crosby che rimprovera di continuo il batterista Mike Clarke per non aver raggiunto il giusto feeling di quella che sarebbe diventata Dolphin’s Smile («Prova a suonarla bene»).

Si capisce da quella registrazione che Crosby non era uno che rendeva la vita facile. Nemmeno a se stesso. Sapeva essere irascibile ed egocentrico. Era diffidente e temeva d’essere sfruttato quando incontrava qualcuno che non conosceva. Era anche un contrarian fatto e finito. A un certo punto, mentre lo intervistavo per la mia biografia di CSNY, gli ho chiesto di approfondire la questione di Homeward Through the Haze e del suo incipit. Nel suo box set aveva detto che riguardava le stroncature di CSNY. «No, parla di Los Angeles». Ho insistito. «No, amico, si tratta di Los Angeles», ha detto sempre più irritato. Volevo dirglielo: ma l’hai detto tu che parla di CSNY. Ho lasciato stare, per poi chiedermi se non avessi avuto un assaggio del caratteraccio col quale aveva spesso tenuto lontano i compagni di band.

Quando gli facevi un complimento, ad esempio per If I Could Only Remember My Name, sul viso gli compariva un sorriso stropicciato e malizioso, qualcosa scattava e la chiacchierata poteva cominciare. Era anche uno che sapeva fare i conti coi suoi errori, ma in modo tutto suo. Un’altra volta che ci siamo incontrati, durante le prove dei concerti per il 25° anniversario della Rock and Roll Hall of Fame nel 2009, Rolling aveva appena pubblicato una mia intervista in cui lui si autodefiniva «vecchio e inquietante». Quando l’ho incontrato, ha citato subito quella frase, per poi ridere più del dovuto.

Si sa che le star esercitano un fascino che va oltre la sola musica e questo vale anche per Crosby. Ogni membro di CSNY era un archetipo con cui potevano identificarsi i fan. Croz era il ragazzaccio, il ribelle attraverso cui vivere una vita dissoluta. Faceva e diceva quel che voleva, senza curarsi delle conseguenze, fregandosene delle leggi e della morale. Non era uno che si nascondeva dai media come Neil Young, Stephen Stills o Bob Dylan. Gli mettevi sotto al naso un microfono e attaccava a parlare di tutto: del pianeta, del music biz che detestava, dei musicisti e dei politici che adorava o che non sopportava.

L’ho capito la prima volta che gli ho parlato, tantissimi anni fa, quand’era a New York per presentare la sua prima autobiografia giustamente titolata Long Time Gone. Eravamo nella sua stanza d’hotel e lui era un po’ stanco visto che s’era alzato all’alba per partecipare a un programma della tv del mattino. Gli chiesi del disco della reunion i CSNY che era finito, ma non era ancora stato pubblicato, e del sollievo dei fan nel saperli ancora in forma fisica. Sbuffò: «Beh, qualcuno di noi lo è», non esattamente quel che la casa discografica voleva sentirgli dire. Ha pagato un prezzo per i suoi commenti poco diplomatici. Ma chi non voleva essere libero come lui?

È un discorso che vale anche per Twitter, dov’è emerso questo lato della sua personalità. Lì una generazione decisamente lontana dalla sua ne ha avuto un assaggio con opinioni negative su Ye, Doors, Phoebe Bridgers (che, ironia della sorte, ha annunciato con Lucy Dacus e Julien Baker l’album delle Boygenius proprio il giorno della sua morte). Se non altro, a giudicare dalle reazioni, molta gente, compresa quella che non lo conosceva, l’ha trovato… liberatorio? La sua morte sembra uno di quegli eventi che chiudono un’epoca per la musica (mettendo fine a ogni speranza d’una reunion i CSN o CSNY) e in un certa misura anche per l’anticonformismo.

L’altra parte del lascito di Crosby, il lato più amabile, è emerso in modo inatteso nei suoi ultimi anni di vita, quand’è diventato qualcosa di completamente diverso, incarnando in modo genuino e sorprendente la figura dell’ispiratore.

A partire da una decina d’anni fa, con la vicenda CSNY chiusa apparentemente per sempre, Crosby è diventato quello che viene definito late bloomer. Alle prese con problemi di salute (un trapianto di fegato, il diabete, le complicazioni cardiache), parlando con la stampa, compreso Rolling Stone, faceva quasi sempre riferimento al poco tempo che con tutta probabilità gli rimaneva da vivere, un sentimento che tutti possono capire.

Il rock sta entrando in un’era mai vista prima con musicisti ultrasettantenni e ultraottantenni che vanno in tour e pubblicano dischi. I casi più clamorosi sono quelli di Dylan e Young, ma la cosa valeva anche per Crosby che negli ulitmi dieci anni ha cercato disperatamente di recuperare il tempo perduto pubblicando quasi un album all’anno e portando ancora una volta il rock in territori sconosciuti, rivelandoci i pensieri d’un rocker ottantenne. Faceva musica con gioia e faceva ascoltare a chiunque (è capitato anche a me) le sue nuove creazioni. Nella settimana in cui è morto stava lavorando alla set list del concerto del grande ritorno in California e a quanto pare anche a un album. Pensando alla propria vecchiaia, veniva voglia di diventare come lui.

L’ultima volta che l’ho visto era il 2018. Era in tour con musicisti relativamente giovani (Michelle Willis, Becca Stevens, Michael League) e il contrasto con quel concerto anni ’80 non poteva essere più stridente. Dopo avere suonato al Capitol Theatre di Port Chester, New York, aveva incontrato i fan. I lunghi capelli bianchi lo facevano sembrare una specie di Babbo Natale esausto dopo una notte passata a consegnare regali. Lo intristiva il pensiero che per un pezzo non ci sarebbero stati concerti con la sua Lighthouse Band, grazie alla quale era rientrato in connessione con la parte eterea della sua musica (mesi fa è stata pubblicata la registrazione di quello show e vale la pena ascoltarlo).

Eppure sembrava felice, sodisfatto, quasi grato. Parlava d’un nuovo album con altri musicisti, tra cui il figlio James Raymond. L’ho lasciato che firmava autografi, posava per i selfie, si crogiolava di tutta quell’attenzione, il bello della terza età di Croz. Sono sicuro che stava anche criticando qualcuno o qualcosa, e va bene così.

Da Rolling Stone US.

Altre notizie su:  David Crosby