Sono i sincronismi che muovono la gigantesca macchina da spettacolo una delle cose belle della docuserie The End of an Era. È il movimento delle parti, l’orchestra di ferro, cavi, tessuti e plastica che suona dietro e sotto al palco dell’Eras Tour affinché tutto si ripeta ogni sera come nella precedente. Lo stage manager dice in radio «cue 43-01… go!» e decine di fumi s’alzano in corrispondenza dello “yeah” di Taylor Swift. Due costumiste s’adoperano affinché i cambi d’abito vengano fatti nel giro di un minuto o poco più in quattro diverse cabine posizionate strategicamente in modo che la cantante non s’assenti dalla scena per più di 120 secondi. Nella foresta di tubi sotto al palco transitano cose e persone. Swift cavalca un carrello su rotaia per raggiungere più velocemente l’altra estremità di quel mondo di sotto dopo essere sparita dalla scena tuffandosi in acque immaginarie. Non c’è tempo da perdere, mentre sale sul carrello Swift già si slaccia il vestito. Se inciampi e ti provochi un’escoriazione alla mano non te ne curi, fai finta che non sia successo.
Si balla in scena e si balla fuori scena, serve la medesima coordinazione. Si ripongono le enormi vele spiegate nell’introduzione dello show, si fanno ruotare intere scenografie, si muovono i materiali per l’era che verrà. Il tempo conta, anche quello meteorologico e lo si cura come ai muretti dei gran premi di Formula 1 con un addetto meteo collegato da remoto che prevede la velocità del vento e se pioverà e quanto. L’accordatura della chitarra viene ricontrollata un secondo prima di darla in mano alla cantante e tre secondi prima dell’entrata in scena, la porta che dà sul palco viene spalancata da due addetti di modo che Swift entri sincronizzando i passi coi beat di Ready for It?, gli ordini transitano dagli auricolari in una sinfonia silenziosa e ogni movimento è monitorato da gente seduta dietro a decine di schermi. E alla fine del tour europeo gli operai smontano il palco e ne impacchettano in modo ordinato i pezzi, un lego gigantesco che ci metterà sei settimane ad arrivare negli Stati Uniti ed essere nuovamente assemblato.
L’Eras Tour raccontato dalla docuserie di Disney+, di cui sono uscite ieri le ultime due puntate, è una cittadella che funziona e che quindi sembra aliena a noi che pensiamo che nella vita non funzioni mai niente. Fa un po’ paura e un po’ invidia. Non è vero che è andato tutto liscio, è stato anche un Errors Tour con piccoli e grandi contrattempi ed è normale, ma a giudicare dal documentario ogni membro della crew ha avuto un ruolo gratificante ed è stato pagato bene, con bonus che fanno scoppiare letteralmente in lacrime, si parla di 100 mila dollari ai camionisti, figuriamoci ai ballerini e ai musicisti. L’etica del lavoro è ferrea e il senso dell’impresa condiviso. Ogni cosa è al suo posto, l’esatto opposto dello spirito dei concerti rock’n’roll in cui conta il momento, a volte l’improvvisazione, spesso l’approssimazione, e ci si manda affanculo una sera sì e una no. E invece la tournée di maggior successo di tutti i tempi è un cubo di Rubik con 200 facce che ogni sera viene risolto allo stesso modo, con le stesse mosse, allo stesso orario. E col sorriso sulle labbra, ovviamente. È il massimo dello spettacolo americano dove il più-o-meno non è contemplato e la tecnica è tutto. “We stage managed the shit out of this show”, dice a un certo punto Taylor Swift e l’immagine è così chiara che spiace tradurla.
Kameron Saunders, Taylor Swift e Travis Kelce. Foto: Gareth Cattermole/TAS24/Getty Images for TAS Rights Management
Come diceva un grande filosofo in un saggio intitolato Last Great American Whale, non credere alla metà di ciò che vedi e a niente di quel che senti. Mai fidarsi di un documentario se a produrlo è l’oggetto dello stesso, però il senso che passa è questo. La serie sul tour di una delle più egoriferite popstar del pianeta (come se una grande popstar non fosse per definizione egoriferita) non è solo un polittico digitale che decora l’altare già riccamente adornato di Taylor Swift. È anche la più colorata e gioiosa, celebrazione di una comunità che ricordi sotto forma di documentario pop. È un racconto corale. Al centro c’è la star, è ovvio. I registi Don Argott e Sheena M. Joyce ci fanno subito entrare in empatia con lei raccontando le storie dello sventato attentato a Vienna e dell’incontro coi famigliari delle vittime di Southport. Ci sono filmati d’epoca, la nonna Marjorie, la love story con Travis Kelce, la musica come family business e tutto il resto. Ma una parte notevole è dedicata a chi lavora con e attorno a Swift, le costumiste, lo stylist, i musicisti, le coreografe, lo scenografo, i ballerini, gente che dopo sei puntate conosci manco fossero i personaggi di una sitcom. È il racconto di una comunità non conflittuale in cui tutti sembrano tenere sinceramente al benessere degli altri, espongono sempre i propri sentimenti, ripetono quanto si vogliono bene e quando lo fanno il più delle volte piangono.
Gli aneddoti sulla capacità di Taylor Swift di entrare in connessione con le persone che incontra o con le quali collabora fanno parte da anni dell’agiografia della popstar ed è possibilissimo che le storie edificanti di The End of an Era siano narcisismo mascherato da altruismo, come dice la canzone. Fatto sta che c’è la storia di riscatto di Kameron Saunders, quello che a San Siro ha detto al microfono «col cazzo!» durante We Are Never Ever Getting Back Together. C’è la corista Jeslyn Gorman che durante il tour scopre di avere il cancro al seno e si deve assentare. Videochiama la sua seconda famiglia che è in tour e quando torna ricorda piangendo (è un documentario bagnatissimo) che Swift l’ha presentata una festa come una «con cui canto» e non come una semplice corista o una sottoposta, e questa cosa è stata di grande importanza per lei. Tutti dicono che mai e poi mai sono stati trattati così bene al lavoro. C’è un’altra cantante, Kamilah Marshall, che ha perso la madre all’inizio del tour e racconta agli altri come si può provare assieme dolore per la perdita e grande gioia per la tournée. E c’è Whyley Yoshimura, ballerino gay che si è sempre sentito ripetere che c’era qualcosa in lui che non andava bene, ma ha trovato finalmente una comunità in cui si sente accettato: la Grande Famiglia Swift.
Il sogno di Yoshimura è ballare durante Ready for It?, dove però sono previste solo parti femminili. Quando la ballerina e coreografa Amanda Balen propone a Swift il cambio per una sera, lei acconsente subito. All’Eras Tour la parità è acquisita e non esibita. Non c’è overthinking dice la star in una battuta di passaggio che però dice tanto sul suo atteggiamento anche politico che raramente prevede prese di posizione nette. È molto criticata per questo, ma chissà che abbia ragione lei e che i ragazzi e le ragazze che strepitano quando entra in scena si facciano un’idea di cosa sia giusto e sbagliato non sbattendo loro in faccia un bel discorso magari col contorno di sensi di colpa, ma mostrando Yoshimura che s’infila il costume di Balen.
E poi c’è il pubblico. Saunders dice che «torni a casa dal concerto più altruista, più gentile, più tollerante». Anche Florence Welch, che arriva sul palco per provare Florida!!!, dice con la sua voce flebile da signora inglese che la cosa più bella dell’Eras Tour è «tutto quell’amore e quelle vibrazioni e le ragazze che ballano nei loro vestiti svolazzanti». Swift risponde che «ci sono tanta gioia e femminilità, e nessuno prova a farle sentire in imbarazzo». Quella degli Swifties è una comunità sovranazionale in cui anche agli adulti è permesso comportarsi come adolescenti, ma è anche il punto più alto di un processo di creazione nel pop di uno spazio molto femminile, una festa de-testosteronizzata a cui hanno partecipato 10 milioni di persone in tutto il mondo, senza contare svariati altri milioni che hanno seguito il tour spillolato sui social e quelli che hanno visto il film-concerto The Eras Tour del 2023, ora superato dal nuovo The Eras Tour: The Final Show.
In più occasioni nell’arco delle quattro ore e mezza della serie Swift spiega che cosa dirà sul palco e anticipa che cosa farà il pubblico, il volume delle urla, il sentimento generale. Ci azzecca sempre. Fuori dagli stadi le scene sono allegre. È vero che l’adesione all’estetica della popstar è tale da sfiorare il culto e che il fanatismo ha le sue controindicazioni, i video degli Swifties depressi per la fine del tour o le urla isteriche perché la cantante indossa un nuovo costume sono incomprensibili per il resto del mondo, ma i messaggi che passano sono di accoglienza, sorellanza, inclusione. Per i cinici è un inferno di mani che fanno il gesto del cuore, per gli altri è una specie di paradiso in cui nessuno è ridicolizzato e tutti sorridono, vanno allo stadio e trovano uno spettacolone che parla anche di coesione, che è poi ciò che ha reso l’Eras Tour un fenomeno culturale e non solo economico. E quando non sorridono, piangono.
Taylor Swift a San Siro. Foto: Vittorio Zunino Celotto/TAS24/Getty Images for TAS Rights Management
The End of an Era arriva in un momento strano. C’è chi è convinto che Swift stia attraversando una fase calante un po’ per le critiche ricevute per il suo ultimo album, un po’ per l’eccesso di pubblicazioni. Non si curerebbe dei fan, insomma, mirerebbe solo ai loro soldi. È bianca, cresciuta in un contesto privilegiato, canta le gioie e le pene dell’amore tradizionale, non è più sintonizzata con questo tempo, se mai lo è stata. Non è nemmeno cool, questo lo ha sempre cantato anche lei, e non lo è il suo pubblico. E però il criticatissimo The Life of a Showgirl è l’album di maggiore successo dell’era dello streaming (non di Swift, di tutti), nonché quello che ha venduto più copie fisiche nella storia della discografia nella prima settimana di pubblicazione. E quindi, come dire, è possibile che i critici siano come il chihuahua che abbaia dalla borsetta in Actually Romantic. Inoffensivi.
Da Stephen Colbert la popstar ha risposto a chi le chiede di pubblicare meno musica, di lasciare che qualcun altro vada al numero uno, di farsi da parte: «Non lo voglio», fine del discorso. In The End of an Era nessuno pensa che conquistare un posto di eccellenza sia un diritto. «Tutti invidiano ciò che hai», dice Swift ai suoi prima dell’ultimo concerto, «nessuno invidia ciò che hai dovuto fare per ottenerlo». La docuserie è quindi un racconto arciamericano di traguardi inseguiti con testardaggine e un sacco di lavoro, vale non solo per la protagonista, ma anche per le storie secondarie che vengono raccontate. Ed è anche implicitamente anti-trumpista perché Swift non esercita la leadership facendo leva sulla forza e sulla paura, ma con l’empatia e il coinvolgimento emotivo. The End of an Era è il racconto di un’utopia pop realizzabile, ma un’utopia in cui devi esporti, un’utopia in cui devi farti il mazzo. Si sgobba come matti, si trascura la vita privata per mesi, si diventa parte di un enorme ingranaggio, si è stanchi eppure felici. È la più grande fantasticheria pop mai realizzata.
Nei concerti arriva sempre il momento in cui Swift canta 22. Nel frattempo i suoi collaboratori sono andati in giro tra il pubblico per individuare una bambina (più raramente un bambino) che si sta divertendo un mondo e che sa tutte le canzoni a memoria. La portano in fondo alla passerella dove viene raggiunta dalla cantante durante l’esecuzione del pezzo. Swift la saluta, la abbraccia, le regala il cappello che indossa e batte il cinque, un piccolo momento di condivisione con una persona che le rappresenta tutte. Nell’ultima puntata di The End of an Era Taylor Swift racconta al fratello uno di quegli incontri. «Mi sono avvicinata, l’ho abbracciata e lei mi ha chiesto: è reale tutto questo? Se lo domandava sul serio e io pensato: onestamente non lo so».
