Sentivo parlare un professore l’altro giorno, un letterato. Spiegava la letteratura come un cerchio. Sul suo perimetro c’erano le rivoluzioni, i grandi cambiamenti, e una volta insorti questi agenti dello scompiglio tendevano a spostarsi verso il centro e a perdere di potenza. Il movimento culturale si nutre di ciò che sta ai margini. Ai margini delle classifiche, delle vendite, della visibilità, da lì si pescano i trend, da quello che si è soliti chiamare underground e che fino a prima dell’era dei social era considerato figo mentre oggi è improvvisamente declassato a non influente perché ha pochi numeri, pochi like o poco hype. Il centro, ovvero il mainstream, è un gran festone di caciara della gala, in cui la forza centripeta degli elementi tende ad annullarsi.
Dall’altro capo del telefono, vicino ai Pireni: «Oggi in piena globalizzazione chi cavolo ha voglia di essere povero e maledetto? (Ride) Quando avevo vent’anni era il sogno, significava che ce l’avevi fatta. La letteratura era dei maudit, dei suicidati della società. Adesso la gente vuole il Black Friday (ride ancora). Ma sai, io sarei quello che sono anche se fossi nato vent’anni dopo. Se tu hai accesso alla cultura, a dei libri, non puoi finire solo ed esclusivamente a esprimerti su TikTok. Se sei una persona sensibile, e lo siamo tutti, l’arte ti apre delle porte incredibili che vanno anche contro il sistema. Io sono fatto di libri, di dischi e di film. L’arte è la cosa che mi ha segnato di più nella vita».
E mentre parla questo cantilenante italo-francese ipnotico, Amaury Cambuzat, leader degli Ulan Bator, cammina producendo un rintocco che fa eco nel tunnel della metro pressocché deserto. «Stai indossando degli stivali?» gli chiedo immaginandolo come un cowboy dark figo, un Blade Runner. «No, è arrivata mia sorella». Ridiamo entrambi e per un attimo si smorza la tensione.
La verità è che più ci parlo più vorrei andarlo a trovare, seguirlo fino in studio e magari scrivere qualcosa con lui o semplicemente assistere alla sua scrittura. Senza scopo, senza voler fare un featuring, solo per vedere come è fatto da vicino un poeta, per farmi benedire e sentirmi meno solo.
Non ci vuole molto a farsi ispirare da lui. Amaury è lucido, è uno che ha costruito una filosofia solida. Spuntato in Italia nei ’90 anche grazie al plauso dei C.S.I. che li vollero in tour con loro (e pubblicarono due dischi per il Consorzio Produttori Indipendenti, ndr), gli Ulan Bator sono stati un riferimento per tutto l’underground. Solo che oggi l’underground è finito, sparito, dissolto. E sta tutta qui la nostra chiacchierata.
Amaury, oggi sei dove vorresti essere oppure no? «No no, io penso di aver questo problema. Il posto è dove c’è il cuore, dove hai gli affetti. Sto bene dove sto con le persone che amo, ma dove stare è la grande domanda che mi faccio da una vita. Sto pensando di recente anche a prendermi un camper e partire, mollare tutto. Voglio incontrare gente. Ho viaggiato tanto nella vita grazie al fatto che ho suonato in grandi band come i Faust. Ho girato il Messico, l’America, un sacco di Paesi. Viaggiando ti rendi conto che hai voglia di fare, che stai sprecando tempo».
Ci pensiamo spesso anche noi, quando timbriamo il cartellino per un lavoro compromesso che ci permette di tirare a campare. Ma così come noi, pure Amaury si chiede come fare a foraggiare il sogno.
«Il casino è avere il coraggio per tanti anni perché ti rimetti in discussione spesso. Sai, non fai i dischi perché devi guadagnare ma perché hai qualcosa da dire sennò è meglio fare un altro lavoro. Per me era concretizzare ciò che avevo in testa. Di solito ci mettevo un anno o due per fare un disco, questo invece è stato un parto. Ho iniziato e mi dicevo: ma può interessare ancora a qualcuno? Chi diavolo mai lo ascolterà? Continuo un po’ per sport, fino a che ho qualcosa da dire lo faccio, ma non ho grandi aspettative. Ogni anno mi rimetto in questione anche se ormai alla mia età farei fatica a trovare un lavoro decente, no? Vado avanti, lavoro anche come produttore e riesco a farmi una busta paga, ma è diventato impossibile».
Partire, mollare tutto. Non a caso ha chiamato la band Ulan Bator, che negli anni ’90 prima di internet era una meta sconosciuta, irraggiungibile. Tanto è vero che non c’è mai stato e questo mi fa impazzire. «Lo scelsi apposta perché irraggiungibile, io mi ci vedo tra dieci anni. Intendo il rock un po’ come l’ultima frontiera dell’avventura ancora possibile. Almeno io credevo fosse possibile senza fare una scuola di commercio e finire a fare un lavoro frustrante». Tutto questo parlare mi si chiarifica dopo che mi sono ascoltato per qualche giorno il nuovo disco della band, che era silente dal 2017.
Il titolo non lascia dubbi: Dark Times. Ma attenzione non ci intendo per forza una critica a questi tempi bui, ma la solita sfida che gli uomini di tutte le epoche si sono posti un giorno quando si son resi conto che il tempo sulla terra concessogli era limitato. Che cosa avevano fatto fino a quel punto? «Io ho 55 anni tra poco e non ho visto il tempo passare. È stata una cosa troppo veloce».
Così come è veloce questo disco, che ascolto in cuffia in sala d’attesa all’Asl, in coda al casello, in fila alla cassa del supermercato quando sono al picco dello stress. A quel punto le chitarre taglienti e i tempi rarefatti della batteria mi strappano dal reale, mi portano altrove. Lì ho bisogno della medicina. Che manco ci capisco nulla perché il cantato è mezzo francese, mezzo inglese, un po’ italiano: insomma, un pastiche che mi parla la lingua dell’inconscio. Vedo odori, sento colori, è lisergico questo Dark Times.
Sembra di passare una serata al Tacheles di Berlino nel 2001. Sembrano i riverberi dei Bad Seeds; le birre calde del centro sociale al buio; l’odore di incenso all’oppio nei festivalini abusivi; le atmosfere tetre e solenni di Solo gli amanti sopravvivono di Jarmusch; il ritmo di marcia spettrale di un plotone di raminghi del tempo; Lynch che fuma un cannone con Battiato e poi fanno meditazione.
I titoli sembrano il frontespizio de I fiori del male: Dark Times (Tempi bui); En enfer (All’inferno); Solitaire (Solitario), in cui per giunta canta: “Solitaire, étranger sur Terre / Solidaire… / Rien à dire mais l’envie d’écrire / Sur ton mur, sur ta peau, mes maux, ces mots: solidaire en solitaire” (“Solitario, uno straniero sulla Terra / Niente da dire se non l’impulso di scrivere / sul tuo muro, sulla tua pelle, i miei guai, queste parole: solidale in solitudine”). In Ravage, otto minuti acustici bellissimi, il picco del disco: “La vie, la mort, la joie / Mon espoir sans fin / La soif, mes pleurs et ma faim / À la dérive, j’y pense souvent Sur le rivage de tes ravages” (“Vita, morte, gioia / La mia infinita speranza / Sete, le mie lacrime e la mia fame / Alla deriva, ci penso spesso sulla riva delle tue devastazioni / Le mie devastazioni”).
Ebbene sì, tutto torna pur non capendoci nulla. Ne avete la riprova ascoltando il cantilenare strambo nella traccia numero cinque Perdu au bon endroit, che tradotto poeticamente sarebbe: perso al punto giusto. Come noi in questi tempi bui.













