Subsonica, fare pace con Microchip emozionale | Rolling Stone Italia
Storie

Subsonica, fare pace con Microchip emozionale

Samuel e soci festeggiano i vent'anni di un album che scrisse il riassunto di un'epoca: un'eredità pesante con cui non è mai stato facile convivere

I Subsonica, foto di Luca Merli

I Subsonica, foto di Luca Merli

La storia, la vera storia di Microchip emozionale – ovvero il secondo disco dei Subsonica – inizia qualche anno dopo la sua uscita. Inizia, diciamo, nel 2002, quando la band lo archivia pubblicando il terzo lavoro, Amorematico (quello di Nuova ossessione), e nascono mugugni e rimpianti. Da parte della critica, soprattutto, ma anche da qualche fan deluso dalle nuove produzioni. E prosegue, questa storia, a ogni loro altro raid negli anni zero e oltre, fino ai giorni nostri. Fino, verosimilmente, a oggi, con Samuel e soci che tornano a mettere testa e nome sull’album uscito nel 1999 con dentro gran parte dei loro classici, riportandolo – in occasione del ventennale – integralmente sul palco. La prima celebrazione a Nichelino (provincia di Torino, casa), e poi Roma, Taormina e Salento.

Cos’è successo? È successo che con Microchip emozionale i Subsonica hanno dato forma e sostanza al magma potenziale dell’album d’esordio (Subsonica, 1997), che presagiva che, sì, i cinque ragazzi torinesi avrebbero potuto dare una svolta alla musica italiana a patto che avessero affinato i suoni, tolto qualche riempitivo, equilibrato il funk con l’elettronica. Ecco: al secondo tentativo ci riuscirono, e nel 1999 registrarono questo disco di livello assoluto, sia per i loro – sempre abbastanza alti – standard, sia per i nostri anni Novanta. Un lavoro talmente intenso, completo, retrospettivo e futuristico che – viene da dire – ne hanno pagato lo scotto.

Qualsiasi passaggio successivo infatti, da Amorematico all’ultimo 8, è risultato complessato, minato da questo totem. Anche quando il successo straripava (dopo Nuova ossessione anche Istrice e Incantevole hanno raggiunto grandi numeri), o di fronte a scelte controtendenza (il sintetico e allucinato L’eclissi) è stato un continuo “sì, ok, bello; però Microchip emozionale è un’altra cosa”. Per scoprire le carte, nel 2011 la band ha scritto coi fan il brano Benzina Ogoshi: una raccolta dei più comuni “non sei riuscito a…” suggeriti dagli ascoltatori. Fra i vari “non sei riuscito a farmi venire” e “non sei riuscito a finire gli studi”, quando nel ritornello è toccato a Samuel e soci contribuire, la scelta è stata facile: “Non siete riusciti a bissare Microchip emozionale“, la frase che più gli è stata rinfacciata dal ’99 in poi. Non se ne esce.

Il punto è questo: si tratta di uno di quegli album che riesce davvero una volta nella vita, su cui un gruppo solitamente campa di rendita, costruisce una fortuna e una credibilità spendibile in eterno. Perché non ha un riempitivo, perché ha una tracklist che è una sorta di best of (da Tutti i miei sbagli a Liberi tutti, passando per Depre, Il cielo su Torino e il resto che vedremo), perché è onnivoro ed esplora tutte le direzioni che Subsonica aveva lasciato intuire. Ma, appunto, è un’altra cosa rispetto al resto della loro produzione, e un paragone a posteriori non ha nemmeno senso.

Parliamo, infatti, di un disco uscito nel 1999, in una congiuntura unica: a cavallo far vecchio e nuovo millennio per una band in stato di grazia, con la prima ondata di alternative italiano allo zenit – Bluvertigo, Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena. Ecco: i Subsonica dell’epoca hanno fra i venti e trent’anni; sono gli sbarbatelli Samuel e Boosta, ma anche il navigato Max Casacci; sono padri e al tempo stesso figli e fratelli dei suoni di quei giorni. Per questo, e per un’innegabile ispirazione (ma l’età conta), la magia è riuscita: Microchip emozionale è la sintesi dei Novanta italiani, il pass con cui il nostro paese si presenta al Duemila. E se non è proprio il lavoro più bello della stagione, sicuramente ne è il più rappresentativo: per quello che contiene, per come lo contiene.

Undici pezzi (più un’introduzione), poi diventati tredici con il singolo Tutti i miei sbagli e Albe meccaniche, di cui i torinesi non ne sbagliano uno, in un’opera di sintesi estrema ed efficace. Dance, musica d’autore, pop ed elettronica sintetica convivono all’interno delle stesse canzoni, sotto l’impianto da rock band. La politica che scopre il groove (Liberi tutti), la love song che incontra il futuro distopico (Il cielo su Torino), il funk che sposa la tradizione (Strade), la classifica che trova la club culture (Il mio dj) e la dance (Discolabirinto) e davvero potremmo citare tante altre combinazioni. Ma magari bastano gli ospiti: Daniele Silvestri dai cantautori chic, Claudio Coccoluto dalle discoteche, Morgan per l’alternative – l’elite di quegli anni, per ogni provenienza. In sintesi, l’underground alza la testa, raggiunge il mainstream e va a Sanremo con “Tutti i miei sbagli”: lsd e cassa in 4/4, dancefloor e testo raffinato, per un successo enorme in radio. E i Subsonica lì, in studio, ad amalgamare un’alchimia fondamentale per il consenso trasversale di cui ancora godono.

Insomma, Microchip emozionale è i Novanta, il disco di una generazione. È anche il più riuscito del gruppo torinese, vero, ma rinfacciare loro di non averlo bissato vuol dire non comprenderne il contesto e la natura. Non avrebbe senso, per dire, se oggi i Subsonica – ormai belli che maturi – seguissero la scia e sintetizzassero in un nuovo album trap, indie, itpop ed edm – per dire. Meglio fare un disco onesto come 8 e continuare a essere la miglior live band italiana. E far pace, dopo vent’anni, con Microchip emozionale.

Altre notizie su:  Subsonica opinione