Studiare i grandi del soul per diventare uno di loro: un ritratto di D’Angelo | Rolling Stone Italia
Un gigante

Studiare i grandi del soul per diventare uno di loro: un ritratto di D’Angelo

Ascesa, sparizione, resurrezione. Un ricordo, un omaggio, un’analisi del perché D era un fuoriclasse. E perché, alla fine, ha vinto la sua battaglia con la musica

Studiare i grandi del soul per diventare uno di loro: un ritratto di D’Angelo

D’Angelo nel 2015

Foto: Earl Gibson III/WireImage

D’Angelo e Questlove guardano o meglio analizzano ogni minimo dettaglio di un video di James Brown del 1964. Seduti su un divano in stanza d’hotel, D e Quest osservano ogni gesto, ogni passo di danza, ogni gioco di luci, ogni momento in cui il Padrino del soul comunica con la band usando segnali quasi impercettibili.

La scena risale a un quarto di secolo fa. Ero in quella stanza per la cover story di Rolling Stone su D’Angelo che in quel momento era uno degli artisti più hot al mondo. Il secondo album Voodoo lo aveva consacrato quale genio musicale indiscutibile. Quel disco profondo, potente, sensuale, carnale, intimo ha rappresentato effettivamente il punto più alto del soul moderno. È l’essenza degli elementi che attirano verso la soul music: groove sporchi, serenate in falsetto, bassi che ti scuotono lo stomaco. Non era solo musica: era la dichiarazione di guerra di D’Angelo sul futuro stesso della musica.

In quell’intervista mi spiegava la sua idea: la musica sta diventando troppo commerciale e Voodoo era un tentativo di spingere gli artisti a seguire la propria voce interiore, ovunque essa li portasse. Voodoo era stato pensato per attirare l’attenzione di Prince, nella speranza di convincerlo a collaborare con lui e con Questlove su un disco. In pratica, era un’audizione pubblica, ma questa è un’altra storia.

D era in cima al mondo, era una superstar, eppure se ne stava lì, a studiare i grandi come uno studentello di grandi speranze. I due non guardavano solo James Brown, ma pure Stevie Wonder, Prince, Al Green, Aretha Franklin, Marvin Gaye, i protagonisti del grande canone soul in un certo senso. Li chiamavano Yoda, quegli artisti, e i video che studiavano erano i loro «trattati». Quel giorno Questlove aveva chiesto a D come sarebbe stata la sua vita se non avesse mai visto un certo video di George Clinton. D aveva risposto che sarebbe stata «completamente diversa».

Osservarlo mentre iper-analizzava con precisione l’opera dei musicisti del passato m’ha aiutato a capire quele fosse l’orgine di almeno una parte della sua grandezza. Era uno studente serio del suo mestiere, un lavoratore instancabile, e questo nonostante avesse un talento fuori dal comune. Era dotato in modo naturale tant’è che, come mi raccontava il fratello maggiore, in famiglia non avevano mai immaginato per lui un destino diverso dalla musica.

D è cresciuto suonando in una chiesa pentecostale in Virginia. Da adolescente s’è trasferito a New York in cerca di un contratto discografico come parte d’un trio. «Vogliamo solo lui», hanno detto quelli dell’etichetta. L’esordio Brown Sugar ha messo tutti sull’attenti: c’era un nuovo gigante del soul in città. Il singolo omonimo, un ammiccante gioco di rimandi al suo amore per la marijuana, è diventato uno dei pezzi più forti dell’estate del 1995. C’era però la sensazione che il progetto fosse incompleto, che le canzoni fossero schizzi più che composizioni finite. Cinque anni dopo, col secondo album Voodoo, D ha spazzato via ogni dubbio. Era un’opera monumentale, quella, e mostrava chiaramente che D non era più un discepolo delle leggende del soul, ma un loro pari.

E però Voodoo ha creato anche un problema di quelli grossi. Conteneva Untitled (How Does It Feel) che è un capolavoro, un vortice di funk erotico talmente intenso da ingravidare chi l’ascolta. Il manager del cantante, Dominique Trenier, aveva perciò immaginato un video in cui D era da solo, con la camera che ne esplorava il fisico scolpito, dalle treccine fino ad appena sotto l’ombelico. Semplice, sensuale, potente. Il culmine di anni di lavoro sul corpo.

Quand’era uscito Brown Sugar, D era infatti in sovrappeso. Nei cinque anni successivi, lavorando a Voodoo, aveva cambiato dieta e s’era allenato in modo ossessivo. Al momento delle riprese di Untitled era perfetto, nello stato di forma ideale. Ma quel video lì lui non lo voleva fare. La limousine era arrivata sul set, ma lui s’era rifiutato di scendere. Era nervoso. Trenier si era seduto accanto a lui ed era rimasto lì finché finalmente D non si è sentito pronto.

D’Angelo aveva studiato musica con dedizione, ci aveva messo cinque anni per fare Voodoo. Voleva che tutto ruotasse attorno alle canzoni, voleva che il mondo capisse che era un gran musicista. Ma le attenzioni per i suoi addominali hanno finito per mettere la musica in secondo piano. S’è sentito retrocesso da genio a sex symbol. E così ha deciso di sparire. Per anni abbiamo sentito la sua mancanza. Fino al 2014, quasi un decennio dopo, quand’è uscito il suo terzo e ultimo album Black Messiah.

Voodoo resta un disco monumentale. Sarà ricordato come una fonte inesauribile d’ispirazione, forse persino la prova che D’Angelo aveva vinto la guerra che aveva scelto di combattere. Ci ha ricordato che si può avere successo ascoltando la propria musa, ignorando le tendenze dell’industria, dando al pubblico musica autenticamente innovativa.

Ora D’Angelo non c’è più e quando ascolto i suoi eredi – gente come Frank Ocean, H.E.R. e SZA – è come vedere dei fiori meravigliosi sbocciare dai semi che ha piantato. In altre parole, alla fine ha vinto lui.

Da Rolling Stone US.

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