Se Steven Wilson si fosse limitato a fondare i Porcupine Tree, sarebbe comunque passato alla storia come il leader di quella che è forse la più grande band prog rock degli anni ’90 e 2000. I dischi solisti ne hanno consolidato la reputazione, garantendogli un culto che gli permette di andare in tour in tutto il mondo.
La vita di Wilson ha preso una svolta inaspettata una quindicina di anni fa, quando ha iniziato a produrre nuovi mix di album classici di grandi del rock come Who, Rolling Stones, Pink Floyd, Black Sabbath e King Crimson. In poco tempo è diventato uno dei remixer più ricercati e ha realizzato nuovi mix stereo, 5.1 surround e Atmos per alcuni dei dischi più amati della storia. È diventato talmente popolare nella comunità degli audiofili che gli Yes hanno persino pubblicizzato le nuove edizioni dei loro album classici degli anni ’70 come Steven Wilson Remixes, mettendo il suo nome in evidenza in copertina.
Non passa mai un momento in cui non stia lavorando a più progetti di remix contemporaneamente, e riesce a farlo continuando a pubblicare nuovi dischi, sia da solista che con i Porcupine Tree. «Mi è sempre piaciuto fare più cose allo stesso tempo», racconta via Zoom da una stanza d’albergo a San Paolo, in Brasile. «Mi annoio facilmente. E a volte fare questi remix non mi sembra nemmeno un lavoro. È un privilegio e una gioia, e ho imparato tantissimo facendolo».
Wilson ha iniziato a interessarsi ai remix nel 2002, quando la sua etichetta ha commissionato al produttore Elliot Scheiner un remix 5.1 di un nuovo disco dei Porcupine Tree. «Non mi piaceva granché» racconta Wilson «e non perché Elliot non avesse fatto un buon lavoro, ma perché io sono un maniaco del controllo e lui non l’aveva fatto nel modo in cui l’avrei fatto io. Così ho chiamato il mio manager e gli ho detto: “Senti, c’è modo di andare a New York e mettermi lì con Elliot per fare qualche modifica?”». In studio accanto a Scheiner, Wilson ha capito di aver trovato la sua vocazione. «Mi sono innamorato dell’idea dell’audio spaziale immersivo. Tornato a casa, mi sono organizzato e ho iniziato a farlo per i miei progetti. E nel giro di un paio d’anni ho iniziato a ricevere nomination ai Grammy».
Per chi non conosce le tecniche produttive, la differenza fra remaster e remix può sembrare minima, ma sono due cose molto diverse. Il remastering è nato negli anni ’90, quando le etichette discografiche cercavano di migliorare il suono dei vecchi album su CD. «Si tratta di prendere il mix stereo originale, presumibilmente su nastro analogico, e cercare di farlo suonare meglio, magari aggiungendo un po’ di alte frequenze, un po’ più di bassi, usando i migliori convertitori analogico-digitale possibili. Ma in sostanza il mix è quello originale. Non si cambia nulla nell’impronta sonora. Può solo risultare un po’ più brillante, con più presenza sui bassi o più aria attorno agli strumenti, se fatto bene». Il remix è tutt’altra cosa. «Significa tornare ai nastri multitraccia originali. In pratica hai a disposizione ogni strumento registrato separatamente. Come remixer, puoi isolare tutto: la cassa, i cori, le chitarre acustiche, quelle elettriche, il basso… e ricostruire da zero il mix».
Questo comporta una serie di scelte molto delicate. «Il vantaggio è che puoi usare strumenti moderni per gestire rumori di fondo, fruscii, imperfezioni audio, e ottenere più chiarezza tra gli strumenti», dice Wilson. «Lo svantaggio è che i fan di quegli album li ascoltano da decenni, e noteranno immediatamente se qualcosa suona anche solo leggermente diverso — se una coda di riverbero è troppo corta o se hai usato la take sbagliata della voce nel terzo verso. È un equilibrio molto, molto delicato».
Dopo tutti questi anni, Wilson è diventato un vero esperto nel mantenere questo equilibrio. Gli abbiamo chiesto di raccontarci otto dei suoi remix più memorabili per capire meglio come lavora.
In the Court of the Crimson King
King Crimson
«È stato un interessante remixarlo perché era stato registrato su otto tracce e avevano ancora i nastri originali delle session. Chitarra, basso e batteria erano stati registrati su un nastro a otto tracce, quindi cassa, rullante, batteria stereo, basso, un paio di parti di chitarra. Si riempivano sette tracce su otto. Poi veniva fatto un bounce, cioè un mix di quelle tracce su una singola traccia mono o stereo di un secondo nastro a otto tracce. Così ci si trovava con un nastro in cui batteria, basso e chitarra occupavano solo due tracce, e le altre sei venivano riempite con Mellotron, fiati e voce principale.
Il fatto che esistessero ancora i nastri originali di batteria, basso e chitarra mi ha permesso di risincronizzarli con la versione condensata e creare quindi una session da 13 o 14 tracce. Per la prima volta, batteria, basso e chitarra venivano ascoltati nella loro forma originale, non in una copia. È molto raro poter accedere ai nastri originali prima del bounce e risincronizzarli. È stato un processo faticoso, perché nessun nastro analogico gira mai alla stessa velocità, quindi bisogna regolare continuamente la velocità del secondo nastro. Ma dopo un processo lungo e meticoloso sono riuscito a creare una session da 13, 14 canali, ottenendo molta più separazione e controllo su dove posizionare basso, chitarra e batteria. Tutti i mix precedenti erano praticamente mono, con il suono tutto nello stesso punto. Lavorando in Atmos, ho potuto finalmente spazializzare gli strumenti e recuperare in qualità sonora non dovendo più usare le versioni ridotte degli strumenti. Un esperimento molto interessante».
Fragile
Yes
«Era un nastro a 16 tracce. È strano, puoi quasi indovinare da che anno proviene un multitraccia. Se mi dici Fragile, 1971, so quasi di per certo che sarà un 16 tracce, e infatti lo è. Ma la cosa affascinante è che, quando ascolti un disco come quello, senti ancora una band che suona dal vivo in studio. Certo, ci sono sovraincisioni e il lavoro di produzione è complesso, ma essenzialmente stai ascoltando un’esecuzione dal vivo registrata in studio.
Nel caso degli Yes, registravano una canzone 50 o 60 volte finché non dicevano “ok, questa è quella giusta”. E poi aggiungevano altro: cori, chitarre acustiche, effetti sonori. Ma resta un disco registrato in modo relativamente “economico”. È anche un album molto dry, asciutto. Il suono della batteria è secco, in primo piano, il classico suono di Bill Bruford. Non c’è molto riverbero aggiunto. Questa cosa segna il passaggio tra anni ’70 e ’80: nei ’70 la quantità di effetti e riverbero era minima, negli ’80 arrivano i riverberi da stadio.
Fragile arriva all’inizio del decennio, quando il 16 tracce era una novità e la band ne sfruttava tutte le possibilità, tipo: abbiamo canali in più sul nastro, cosa possiamo farci? Che armonie complesse possiamo aggiungere? Il movimento prog è interessante anche per questo: non riguarda solo la musica, ma anche le possibilità tecniche offerte dalle sovraincisioni, che improvvisamente diventano accessibili. Certo, i Beatles le usavano già, ma ora erano alla portata di tutti. Potevi aggiungere un violoncello, un clavicembalo, un theremin o cinque strati di cori, se volevi. E credo che i musicisti prog siano stati bravissimi a sfruttare questa possibilità».
Chicago II
Chicago
«Che gran disco. Anche questo era un 16 tracce, ma non era registrato particolarmente bene. Per questo molti dicono che ha un suono ovattato. All’inizio mi è stato commissionato semplicemente un nuovo mix stereo che è uscito nel 2019, mentre la versione Atmos è arrivata solo di recente, quasi come un ripensamento.
L’incarico iniziale era di provare a risolvere alcuni dei problemi presenti nel mix stereo originale, che era molto… beh, chi lo sa il perché, forse per via del banco di registrazione, forse perché erano tutti fatti o forse avevano fretta di tornare in tour. Chi può dirlo? Ma rispetto al primo album, che ha un suono bellissimo, questo aveva un tono molto medio, un po’ rigido a livello sonoro. La gente dice che i fiati sembravano dei kazoo, che è un’esagerazione, ma in effetti c’era qualcosa di esile, metallico e rigido nel mix originale.
E quindi ha rappresentato l’occasione di tirar fuori un po’ più di sostanza. Ovviamente, parte di quel suono è intrinseca alla registrazione originale, ma sentivo di poter fare molto e credo di esserci riuscito: dare più corpo agli strumenti, più chiarezza, più aria attorno. Ho sempre amato quel disco, quindi è stato un atto d’amore cercare di farlo brillare e tirare fuori nuove sfumature».
American Beauty
Grateful Dead
«Questo è l’esempio opposto. American Beauty è un disco incredibilmente bello. Stephen Barncard era l’ingegnere del suono, un tecnico straordinario, lo stesso che ha registrato anche il magnifico primo album solista di David Crosby. Sono dischi incisi in modo meraviglioso.
L’idea, con American Beauty, era di trovare un modo per portare i Dead nello spazio. Una sfida. Ho appena finito anche Blues for Allah, che è tutt’altra storia: molto più impressionista, pieno di sound design, sperimentale. American Beauty è invece un disco dal suono molto tradizionale. Quindi che cosa fai con un disco del genere quando lo stai mixando in Dolby Atmos, cioè posizionando i suoni attorno all’ascoltatore? La risposta è: nulla di artificioso. Non bisogna far muovere i suoni nella stanza. Bisogna piuttosto collocare l’ascoltatore dentro lo studio, dentro la band, mentre suonano.
Magari la chitarra di Jerry è da quella parte, il pianoforte da quell’altra, ma rimangono lì, nello spazio, per tutta la durata del pezzo. Così, quando ascolti il mix Atmos, è come se fossi in studio con loro mentre registrano il brano. Ed è meraviglioso, ma davvero meraviglioso».
Who’s Next
The Who
«Affrontando Who’s Next ho cercato di essere il più fedele possibile alla firma sonora originale, al mix originale. L’album è una registrazione su otto tracce, non si era ancora arrivati alle 16 tracce. Le batterie di Keith Moon sono per lo più registrate in mono, quindi non ho potuto fare granché: dovevano stare dove stanno. Non potevo distribuirle attorno all’ascoltatore come mi sarebbe piaciuto. Ci sono dunque limiti intrinseci nel lavorare su un otto tracce.
Ma ci sono altri elementi, ad esempio il riverbero. Il riverbero sulla voce di Roger Daltrey, ad esempio, è una parte essenziale del suono del disco. Oggi esistono emulazioni digitali di quasi ogni apparecchio mai costruito e molte sono eccezionali. Parlo spesso con i produttori di questi dischi. Ho appena lavorato sul catalogo di Phil Collins, e ho potuto parlare con Hugh Padgham. Gli ho chiesto che riverbero usavano e lui mi ha detto che usavano un EMT 140 oppure il Lexicon 244. Sono informazioni che valgono oro per me.
Nel caso di Who’s Next, ho scoperto che usavano camere di riverbero vere e proprie, gli studi di registrazione avevano grandi stanze pensate proprio per creare l’eco. Ma usavano anche l’EMT 140, un famoso riverbero vintage. Quindi gran parte del mio lavoro, soprattutto con un disco così iconico, è stato cercare di ricreare il riverbero, l’eco, la sensazione spaziale della voce. Sbagliare quella parte salta subito all’orecchio.
Una cosa che mi fa impazzire è sentire registrazioni degli anni ’60 o ’70 con riverberi digitali da anni ’80 o ’90. Mi manda fuori di testa, è sbagliato. E sì, capisco la contraddizione insita nel dirlo mentre remixiamo nel 2025 dischi registrati decenni fa, ma credo che si possa arrivare molto vicino al suono originale. Ecco un esempio perfetto: ricreare il riverbero di Who’s Next è stato fondamentale per farlo suonare nel modo giusto».
Moondance
Van Morrison
«Prima ho detto che l’album dei Grateful Dead era una band in studio che suona dal vivo, ma con alcune sovraincisioni. Nel caso di Van Morrison, invece, non c’è stato nulla dopo la session. Quello che senti è la registrazione dal vivo della band, voce principale inclusa. Lo so perché la voce di Van si sente filtrare su tutti gli altri microfoni in studio: la senti nei microfoni della batteria, della chitarra, del piano, del basso. E viceversa: la batteria si sente nel microfono della voce, il basso in quello della chitarra.
È una vera registrazione di una performance dal vivo in studio. Quindi ho adottato lo stesso approccio usato coi Dead. Ho messo l’ascoltatore proprio al centro dello studio, accanto a Van e alla band, mentre registrano Caravan o Into the Mystic. Ed è meraviglioso. Nel mix Atmos puoi quasi vedere il pianista da quella parte, il contrabbassista dall’altra, il sassofonista là dietro. È incredibile. Se ami quel disco, credo che questa sia un’esperienza totalmente nuova e bellissima per riscoprirlo».
Vol. 4
Black Sabbath
«Di questo disco c’erano i nastri delle session, ma non i master. Mi è già capitato altre volte: ti mandano quello che dicono essere il multitraccia di un album, lo carichi e inizi ad ascoltare… e ti accorgi che sono solo prove della band che suona Wheels of Confusion più volte. Ma dov’è la take buona, quella definitiva, su cui hanno fatto le sovraincisioni? Non c’è.
A volte succedeva così: registravano nastro dopo nastro con varie prove dal vivo. Ozzy faceva una scratch vocal, cioè una voce provvisoria, registrata dal vivo, che poi sarebbe stata rifatta. Cercavano una buona performance, soprattutto per batteria, chitarra ritmica e basso. Quando trovavano la take giusta, la tagliavano letteralmente dal nastro e la incollavano su un nuovo reel, quello dei master. Quei nastri, nel caso di Vol. 4, sono spariti. Quindi non abbiamo potuto fare remix o mix Atmos dei master veri e propri.
Quello che abbiamo potuto fare è stato assemblare un paio di CD con le prove in studio, i tentativi, le interruzioni, e per chi ama quel tipo di materiale (lo so, è una nicchia), è affascinante. Per chi considera Vol. 4 il proprio album preferito di sempre, ascoltare quelle take è una gioia».
Black and Blue
The Rolling Stones
È stato incredibile lavorarci. È una registrazione a 24 tracce. Alcuni dicono che sia il disco degli Stones con il miglior suono degli anni ’70 e potrei anche essere d’accordo: suona in modo fantastico.
Qui c’è un po’ più di sovraincisione rispetto ai classici dischi rock, anche perché stavano di fatto facendo audizioni a vari chitarristi mentre registravano. Quindi ci sono tante parti di chitarra diverse, cori, Billy Preston alle tastiere. Ballad come Memory Motel e Fool to Cry sono molto stratificate, con bellissime chitarre, Fender Rhodes e sovraincisioni di tastiere. In Atmos suonano meravigliosamente bene. Anche qui, l’obiettivo era metterti in studio con la band.
Non sono dischi orientati al sound design come quelli di artisti tipo Tears for Fears o Frankie Goes to Hollywood, che ho remixato di recente. Quei dischi sono quasi fatti del produttore, pieni di piccoli eventi sonori sparsi ovunque. Non è il caso di rock band dal vivo come gli Stones, che però in audio spaziale immersivo hanno una resa favolosa».












