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Sono 10 anni che gli Zen Circus ci mandano tutti affanculo

L'11 settembre 2009 usciva il quarto album della band, e tutti si chiesero se sarebbero riusciti a evitare di farsi inghiottire dal vortice trendy che ha risucchiato tutto l'indie. La risposta oggi è sotto gli occhi di tutti

Foto di Ilaria Magliochetti Lombi

E pensare che doveva essere un Ep. Così com’è difficile credere che un disco con una copertina così trash, comunicativa, questo sì, ma davvero trash – come neanche gli Skiantos osarono mai fare, e chi sa se l’idea dei cartelloni non sia proprio un omaggio di quelli proposti da Freak Antoni al suo di pubblico –,z contenga ottima musica. Ma, d’altronde, è altrettanto difficile credere che gli Zen Circus, toscanacci ruspanti con il miglior rock americano a scorrergli nelle vene, siano stati tanto apprezzati alle nostre latitudini da scalare l’interesse nell’immaginario collettivo dal ruolo di next big thing del indie tricolore a trovarsi, nel giro di qualche anno, sul palco del Ariston a fianco di Baglioni. Un prodigio? Sì, come un mezzo prodigio è stato il loro quarto mediano album, Andate tutti affanculo, uscito l’11 settembre del 2009. Mezzo e non “intero”, solo perché il terzetto, non curandosi della mancanza di agganci con la modernità, non inventa nulla, ma si limita a percorrere con consapevolezza, competenza, ispirazione e classe, il solco delle consolidate tradizioni musicali di matrice americana che li hanno ispirati già dal nome.

Un po’ di Husker Du (di Zen Arcade e Metal Circus, ovviamente), un po’ i (primi) Violent Femmes, qualche spruzzata  di intellettualismo metropolitano, al crocevia in cui i Television potrebbero incrociare i Pixies oppure i Replacements i R.E.M.: questa, in una sintesi assai estrema, la formula elaborata non si sa quanto inconsciamente dalla band, amalgamando una chitarra (di Andrea Appino), un basso (di Ufo, o Massimiliano Schiavelli che si voglia) e una batteria (di Karim Qqru). Ma anche, a fare differenza, coltivando un indiscutibile talento naturale nel songwriting: come a volere affermare che, persino in quel 2009 della tecnologia e dell’indiscriminata ibridazione, potesse esistere un posto al sole per chi voltasse le spalle ai trucchi e decidesse di affidarsi ancora alle canzoni.

In questo senso, la verbosa e torrenziale dialettica di Andrea Appino, inizia proprio da qui, con l’abbandono dell’idioma inglese per quello italiano, a riportare alla memoria quelle che poi saranno poi le colonne portanti degli Zen Circus, da qua in avanti, nelle recensioni a venire: Lucio Dalla, Rino Gaetano e, per i palati meno scontati, un certo Ivan Graziani, sempre troppo poco ricordato. Il giorno che Andate Tutti Affanculo (uscito su Unhip/ La Tempesta/ Infecta Suoni E Affini, quando gli indie erano ancora indie sul serio) finì sui giornali, le due critiche che gli vennero mosse furono: di avere capito che continuare a cantare le loro canzoni in inglese li avrebbe portati in un vicolo cieco fatto al massimo di qualche tour in club scalcagnati qua e là per l’Europa e dischi venduti a manciate, e, quindi, di avere fatto il salto della quaglia alla maniera di Afterhours o Perturbazione, (sostanzialmente) per battere cassa.

La sottesa domanda che ci si poneva in sede di recensione era se sarebbero durati, gli Zen, o sarebbero stati inghiottiti da un ambiente che, rendendoli un fenomeno “trendy” ancora prima della reale comprensione del loro potenziale, iniziava già a fagocitarli come, del resto, stava facendo con Il Teatro degli Orrori e aveva fatto già con i Marlene Kuntz (che, nel 2009, già si piangevano addosso con un titolo come Cercavamo il Silenzio…). Le previsioni più catastrofiche, dopo dieci anni e altri quattro dischi immensi, sono state fortunatamente tutte confutate.

Rendendo migliore, invece e se è possibile, la riscoperta dei dieci episodi di questo disco, che in appena quarantacinque minuti (va là, alla vecchia!)  sciorinano una brillante sequenza di ritmi sospesi tra l’incalzante e l’ipnotico, melodie cristalline e assieme torbide, cantato indolente ma assai comunicativo, tanto da diventare a tratti impertinente, e tensioni alle quali il fatto il fatto di essere in buona misura trattenute non elimina  la forza in qualche modo eversiva (si prenda a mo’ di esempio We Just Wanna Live, uno dei brani più riusciti, un piccolo gioiello, che sotto l’apparente bonarietà nasconde furori quasi deandreiani). Che lo si sia ascoltato dieci anni fa o lo si prenda in mano oggi per la prima volta o un ripasso generale, in titoli quali L’Egoista, Gente Di Merda, Ragazza Eroina, Andate Tutti Affanculo, fino a Canzone di Natale vive lo spettro inquieto della provincia italiana e di una musica che sa sempre come risorgere dalle sue ceneri: la si goda senza nessun freno inibitore e si pensi che, quasi per un soffio, questo disco non è stato solo un Ep – magari pure di passaggio.

Se volete approfondire la storia del Circo Zen, proprio in questi giorni sta uscendo anche il libro Andate Tutti Affanculo: un romanzo anti-biografico scritto a più mani dagli stessi Zen con Marco Amerighi. Un libro da leggere d’un fiato, e senza dare retta a chi crede che, dopo Sanremo, gli Zen Circus non sia più in grado di mandare tutti affanculo.

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