È stato il più euforico, carismatico, irrequieto pontiere tra musica bianca e nera a cavallo fra anni ’60 e ’70, fra i massimi artefici di quello che oggi chiamiamo funk, santone nero e psichedelico nell’epoca in cui la sua San Francisco era al centro della cultura pop. Ma Sly Stone è stato anche, per dirla con Nick Kent, «lo scoppiato più spettacolare della musica contemporanea». Tutto quel successo, diceva James Brown, gli ha incasinato la mente e l’ha trasformato in un fallito. L’ascesa è stata veloce e grandiosa, l’oblio lungo e penoso.
Stando stretti, nell’arco di sei anni e cinque album, da Dance to the Music del 1968 a Fresh del 1973 passando naturalmente per There’s a Riot Goin’ On, ha riscritto le regole della black music. Non è un’esagerazione. Sly Stone, morto ieri a 82 anni per una broncopneumopatia cronica ostruttiva e altri problemi di salute, ha portato a un altro livello il grande mischione di generi bianchi e neri. Da una parte il rock psichedelico, il linguaggio dei fattoni e visionari bianchi della sua epoca, dall’altra il funk di James Brown, che ha per un certo periodo surclassato, il soul della Stax e della Motown, il gospel, la disco prima che esistesse la disco. Ma non era nessuna di queste cose. Aveva storie di strada e pistole e uno stile ora duro e ora ruffiano che non si ritrovava nei canoni della black music che proprio in quegli anni si stava rinnovando.
Era mista anche la formazione del suo gruppo, Sly and The Family Stone, con musicisti bianchi e neri. Oggi pare normale, ma erano gli anni ’60 negli Stati Uniti, dove l’integrazione era legge, ma non sempre pratica. L’esistenza stessa di Sly and the Family Stone era una dichiarazione forte. «Io ero un uomo bianco che cercava di essere nero», ha detto il sassofonista Jerry Martini, «Sly era un nero che cercava di essere… tutto». Anche il pubblico era misto, molto più di quello altri musicisti neri dell’epoca come Jimi Hendrix. Nel 1969, nel giro di poche settimane il gruppo si è esibito sia all’Harlem Cultural Festival, la celebre Woodstock nera raccontata nel film Summer of Soul, sia ai tre giorni di pace e musica di Woodstock. Ovunque andasse faceva furore.
Il suo vero nome era Sylvester Stewart, è nato nel 1943 nel Texas, ma è cresciuto in California e forse solo lì avrebbe potuto sviluppare la sua idea geniale e caotica di musica. Talento precoce, ha effettuato la sua prima incisione discografica a 11 anni coi fratelli, gli Stewart Four. Ha fatto parte di una piccola formazione interrazziale, i Viscaynes. Erano i primissimi anni ’60, aveva una relazione con una delle ragazze bianche del gruppo, un casino per l’epoca. In quel periodo ha fatto il musicista, il disc jockey, il produttore e l’autore per terzi e ha cominciato a frequentare la cricca della futura Summer of Love. Nel 1966 ha fondato Sly and The Family Stone colmando la distanza che separava il pubblico bianco e hippie da una parte e quello nero amante di soul e rhythm & blues dall’altra. Col passare degli anni è diventato sempre più appariscente ed egocentrico anche per via dell’uso della cocaina.
Il gruppo entra in classifica prima con Dance to the Music e poi con Everyday People, uno dei suoi tanti inni alla gioia e alla solidarietà. Il picco è tra il 1969 e il 1971, sono gli anni di Stand!, l’album di I Want to Take You Higher e di Don’t Call Me Nigger, Whitey, e del rivoluzionario e per certi versi sconcertante There’s a Riot Goin’ On, «blues moderno e cupo che rifletteva la paura, la paranoia e la disillusione dell’America nera», per dirla con Bobby Gillespie dei Primal Scream. Sono gli anni in cui la musica di Sly Stone è estasi e disincanto, ballo e rivolta.
«Le cose che faceva erano allucinanti» ha scritto Miles Davis dei dischi di fine anni ’60 «i suoi groove aggiungevano tutta una serie di nuove dimensioni al funk». Era anche di Sly la musica che il jazzista aveva in mente quando fece On the Corner. I due si erano incontrati per parlare di un’eventuale collaborazione su There’s a Riot Goin’ On. A Davis, che non era certo uno timorato di dio, non andrò a genio l’aria che trovò a casa sua e in studio, «ragazze dappertutto, cocaina, guardie del corpo con una pistola». Al posto di fare musica si fecero qualche riga. Per Stone era un’abitudine: si racconta che girasse per strada con una custodia di violino che perdeva polvere bianca.
È anche l’epoca dei grandi raduni, chi ha visto il film su Woodstock lo sa. «Il suo livello di energia» scriveva Nick Kent a proposito di quell’esibizione del 1969 «è sovrannaturale e contagioso, mentre incita i Family Stone a tirar fuori un inferno furente di funk intricato, di un’intensità al contempo gioiosa come il gospel e demoniaca come il voodoo». Sono le due facce del personaggio e del suo repertorio, gli appelli all’uguaglianza e le vibrazioni pericolose, l’amore e la violenza.
«C’era un’enorme libertà nel sound del gruppo. Era complesso, perché la libertà è complessa; selvaggio e anarchico, come il desiderio di libertà; simpatetico, tenero e coerente, come la realtà della libertà. Ed era come una grande celebrazione, un’affermazione, una musica ricca di humour e delizia infinite, era come una fantasia di libertà», ha scritto Greil Marcus. «Sly era un vincente. Sembrava che avesse sconfitto non solo la razza ma avesse saputo inventare le proprie regole. Mentre guidava le macchine più belle, indossava i vestiti più sensazionali, firmando i contratti più vantaggiosi e incidendo la miglior musica, stava espandendo lo stile e l’ambizione dei ragazzini di colore di tutto il Paese».
There’s a Riot Goin’ On è frutto di un periodo caotico ed è un viaggio disturbante e tossico, incasinato e complesso, uno dei grandi dischi dell’epoca e uno dei primi in cui si fa uso di una drum machine. È anche il lavoro instabile di una mente deragliata che è arrivata a ingaggiare un killer per uccidere il bassista Larry Graham, una storia folle che Sly ha negato addossando la colpa a un collaboratore. L’ultimo grande disco è Fresh del 1973. L’anno dopo sposa Kathy Silva al Madison Square Garden di fronte a 23 mila persone pregate di mettersi vestiti color oro. «Mi picchiava, mi teneva segregata, voleva che facessi dei ménage à trois», ha detto Silva a metà anni ’90. «Non volevo quel mondo di droghe e bizzarrie». Il matrimonio è durato solo due anni, la donna se n’è andata quando il cane del musicista ha quasi ucciso il loro figlio.
Non è stato solo il successo a incasinargli la testa, come ha detto James Brown. È anche la roba, la cocaina e gli allucinogeni. Il suo egocentrismo diventava impossibile da sopportare, a volte neanche si presentava ai concerti che venivano annullati a decine, letteralmente. Ha stretto rapporti con la mafia per farsi proteggere, ha subito le pressioni politiche delle Pantere Nere, soffrendone, ha conosciuto la strada. Andavi a intervistarlo, dicono, e ti portava in una zona della città tremenda a comprare roba. «Sly ha riempito un vuoto sociale importante, creando un ponte tra bianchi e neri», ha detto il suo primo manager David Kapralik. «Ma allo stesso tempo c’erano forze che lo spingevano verso la militanza politica. I suoi due personaggi, il timido e innocente poeta Sylvester Stewart e il duro di strada che aveva inventato, si sono scissi. Si è annullato nella coca».
Si racconta che una notte è entrato ai famosi Record Plant per prendersi coi suoi scagnozzi, armi alla mano, dei nastri che aveva inciso e non pagato. Alla fine se n’è andato a mani vuote non prima di dire a Michelle Zarin, che gestiva lo studio: «A volte è difficile essere me, ma devo essere Sly fino alla fine». Difficile dire se lo sia stato fino in fondo. Ha continuato a incidere e collaborare con altri musicisti, ma è stato superato dalla storia e ha continuato ad avere problemi di droga per decenni che hanno reso difficili i rapporti coi familiari. È stato arrestato più volte, si è disintossicato, ha ripreso, si è disintossicato di nuovo in un circolo quasi senza fine. Per molti anni si è aspettato che facesse il grande disco della rinascita, com’è successo a molti altri artisti della sua epoca che hanno attraversato alti e bassi. Non è mai arrivato. Sly and The Family Stone sono entrati nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1993, ma non è stata un’occasione gioiosa. «Quando abbiamo iniziato aveva il potere di controllare 80 mila persone con lo sguardo», disse all’epoca Jerry Martini. «Nel 1993 non riusciva nemmeno a guardarmi in faccia».
Quest’anno Questlove gli ha dedicato il documentario Sly Lives! (aka the Burden of Black Genius) in cui racconta la sua storia e anche la sua caduta dal punto di vista razziale: la tesi è che per via delle pressioni della società alcuni artisti neri pensano di non meritare il successo che hanno e finiscono per autosabotarsi. La sua influenza è nondimeno vasta e va da Prince all’hip hop, si calcola che le sue canzoni sono state campionate almeno un migliaio di volte. Sempre Questlove, tramite la sua casa editrice, ha pubblicato nel 2023 l’autobiografia di Sly Stone Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin), dal titolo di un pezzone coi Family Stone. Nel promuoverla Stewart ha detto in una rara intervista al Guardian che «non ho mai fatto la vita che non avrei voluto fare». Era l’ottobre 2023, diceva di avere deciso di ripulirsi solo quattro anni prima. «Ho problemi coi polmoni, con la voce, con l’udito e con tutto il resto del corpo». Come ha scritto nell’autobiografia, «non è che non mi piacessero le droghe. Mi piacevano. Se non avessi dovuto scegliere tra loro e la vita, le starei ancora usando».