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Siamo ancora dipendenti dai Verdena, anche dopo 20 anni

Nel settembre del 1999 usciva un album su cui erano in pochi a scommettere: improvvisato dentro un pollaio, da tre ragazzi con le chitarre scordate che avrebbero cambiato per sempre il rock italiano

Chi sa che ovetti di cioccolata si compravano poi i Verdena? In tutto lo scintillio giallo in copertina all’omonimo album, il grugno di quello che sembra uno gnomo di pietra, riflette il genio dell’allora terzetto bergamasco al debutto ma getta un piccolo mistero sulla veridicità dei comunicati stampa: non so voi ma noi non abbiamo mai trovato nulla di così iconico in un Kinder Sorpresa. Momento “Carlo Lucarelli” a parte, il disco, uscito per Black-Out (ovvero la sotto-etichetta dalla Polydor di Giuseppe Galimberti; un sognatore a cui dobbiamo tanta roba di spessore dei 90’s: dai CSI ai Ritmo Tribale, passando per Neffa & I Messaggeri della Dopa e Dj Gruff) il 24 settembre del 1999, fu in grado di plasmare con sensibilità nostrana il capitale musicale portato alla ribalta dieci anni prima da formazioni come i Melvins e i Mudhoney e, nel tempo che li ospitava, da Placebo, Nirvana e Smashing Pumpkins – più le L7, allora unica dichiarata influenza di Roberta Sammarelli. Questo prima che i Motorpsycho e i Beatles diventassero una costante nella maniacale ricerca del sound perfetto di Alberto Ferrari.

Infatti, i fratellini Alberto e Luca Ferrari, rispettivamente voce e chitarra distorta e batteria, con Roberta Sammarelli al basso, iniziavano un percorso artistico senza troppi giri di parole né manifesti programmatici (“Essere costretti a fare qualcosa che piaccia sempre a qualcun altro penso sia frustrante. Immagino quegli artisti che, dopo quarant’anni, sono ancora lì a sperare che la loro musica piaccia al pubblico, alla stampa, agli amici, e penso che sia frustrante” le parole sagaci di quegli anni), lasciandosi trasportare da un’ispirazione sempre destabilizzante, sia nel fermento di quel periodo che nel mortorio di quello attuale e raccogliendo in maniera proficua gli input captati sia nel loro bunker creativo, cioè l’Henhouse Studio, ricavato dal pollaio dove sono state composte tutte le canzoni della band dal 1993 in avanti (“I nostri pezzi partono così: si parte con l’improvvisazione e mentre si scrive ci si guarda in faccia”), che dalla vicinanza sia artistica che umana di Giorgio Canali, nelle vesti di co-produttore di tutto rispetto (“Ho delle immagini precise dei Verdena: in trio, tutto dal vivo, a piazzare microfoni in giro e a sperimentare qualche soluzione tecnica che avevamo captato da Seattle, dallo studio di Stone Gossard dei Pearl Jam”, nel suo vivo ricordo odierno).

Del resto, col trascorrere del tempo, saranno i ragazzi stessi ad affermare più volte la personalità fuori dagli schemi che gli appartiene (“Noi siamo quello che sembriamo, e prendiamo posizione, e non siamo come i tanti che danno un colpo al cerchio e uno alla botte, che vorrebbero essere veri e alternativi allo stesso tempo ma poi hanno paura di alzare il livello della distorsione”, dissero mentre Valvonauta era stata lanciata nell’orbita dell’heavy rotation televisiva), dando filo da torcere a quanti (molti, moltissimi, fidatevi, anche se ora non ve lo verranno a dire) li scambiarono solo per enfant prodige pronti a tirare le cuoia in una manciata di anni – al pari dei Lùnapop, come realmente si sentiva dire in giro – anche per via dalla perenne sfiga dal vivo che li ha accompagnati almeno fino al terzo disco, a suon di pedali rotti, corde saltate, batterie instabili e via dicendo. Per questo la firma con la Black-Out fu tutt’altro che di circostanza, considerando che “Non volevamo certo accettare il primo contratto, perché per noi non era poi importante incidere un CD quanto farlo alle nostre condizioni, senza avvilire la nostra musica”.

La presenza di Canali, al netto delle cose dette all’uscita de Il Suicidio del Samurai (“Il rapporto con lui ci ha senz’altro arricchiti, anche se non ci troviamo del tutto d’accordo con il risultato: nonostante le registrazioni analogiche, ci sembra un po’ troppo pulito e poco pesante”), ostenta una rabbia delle viscere (Ovunque, Viba) e soluzioni soniche di tutto rispetto (Dentro Sharon, Zoe), mettendo in mostra influenze tese al grunge forse mai così marcate per una compagine autoctona, al punto che i raffronti fatti con i papà dell’indie nostrano (Afterhours e Marlene Kuntz) vennero messi da parte per lasciare spazio a parallelismi più ovvi e pronti a essere puntualizzati dai Verdena stessi a suon di “Non credo sia negativo aver come riferimento un gruppo straordinario come i Nirvana, ma lo si può avere anche in forma involontaria ecco”. Se la veste dei brani colpisce per la solidità del classico chitarra/basso/batteria, la struttura basica appare poi mossa da una salvifica incoscienza contenutistica e da una primordiale urgenza comunicativa che, a suo modo, farà storia nel mettere a fuoco un preciso modus operandi di molti gruppi a venire, pure distanti da loro (pensate a L’Officina della Camomilla, per dire).

Le liriche, da questo punto di vista, sono più uno strumento melodico e veicolo per sensazioni decisamente cupe (Utranoia, fin dal titolo) che racconto di una qualsivoglia storia. All’epoca vennero definite a più riprese come “fuori fuoco” o “perfettibili” ma, col passare del tempo, si è scoperto come avessero ragione loro ad affermare che “in italiano le parole negative si adattano meglio a una formula come quella dei Verdena, è un dato di fatto” e che “le immagini possono anche avere un significato loro in cui si può leggere qualcosa o meno, ma non ci devono per forza essere messaggi precisi ne tanto meno la pretesa di far letteratura o poesia”. Ai Verdena importa solo che i testi “suonino” e bene. Comunque, Verdena, il disco, si fa apprezzare per vigore, schiettezza e impeto vitale, inquadrando un preciso contesto storico sia nella vita di una band in divenire che di quanti ne hanno apprezzato il germogliare.

Per comprendere ancora meglio questo quadro, oggi esce la versione Deluxe per il ventennale della sua realizzazione. Il doppio CD contiene l’album originale, con una rinnovata veste grafica che amplifica (se possibile) le nostre iniziali perplessità, la cui prima traccia (Ovunque) presenta un mix alternativo alla prima versione. Mentre il secondo disco propone “5 Relitti, 2 Residui, 2 Avanzi e un Demo”.

Due brani erano contenuti in Valvonauta, l’EP del 1999 (Bonne Nouvelle e Piuma), altri due pezzi accantonati dalla band perché non convinti dell’esecuzione sono Corpi, un inedito rabbioso, e la clamorosa e nirvaniana Fiato Adolescenziale, registrati entrambi da Canali nella stessa sessione del 1999 e poi mixati quest’anno da Alberto nel Pollaio. A completare la tracklist, una versione acustica di Fuxia, una di Ormogenia recuperata dall’introvabile LP (c’è chi lo vende a 500 euro e io inizio a pensare se incorniciarlo sopra il camino come fosse un Modigliani) e una primordiale registrazione su 4 piste a cassetta nel corso di una jam casalinga (Da Giordi); in chiusura uno svolazzo abbozzato in acustico (Oggi, piccola perla e nulla più) e la versione live di Shika (altro inedito bello e distorto) di cui pare non esista una versione in studio ufficiale. Dopo i Novanta, tutta un’altra storia.

Alberto Ferrari ci si mette di buzzo buono perché la band si evolva di continuo, e i suoi compagni continuano a dargli il loro supporto. Amici fedeli, musicisti solidali. L’alchimia tra di loro, dopo oltre vent’anni, sembra immutata mentre altre formazioni si sono date alla macchia lasciandosi dietro orde di fan a bocca asciutta. Quelli dei Verdena, invece, sono ancora qui, ancora accecati dalla musica di questo controverso CD d’esordio. Quei fan però non saranno i soli a buttarsi su questa rinnovata edizione. Saranno affiancati da tutti coloro che, anche solo per curiosità, o sentito dire dai fratelli maggiori, si vorranno fare una scorpacciata di gustoso indie rock all’italiana, quasi perfetto, soprattutto se si considera la giovane età di chi suona. Attenzione allora a tutti: Verdena crea dipendenza. Ve lo diciamo noi che ancora non siamo usciti dal tunnel.

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