Se volete ritrovare lo Stato libero di Litfiba, riascoltate la Trilogia del potere | Rolling Stone Italia
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Se volete ritrovare lo Stato libero di Litfiba, riascoltate la Trilogia del potere

Ecco perché certi testi anni '80 sono attuali in questo tempo di guerra e quelli del periodo del grande successo commerciale, ugualmente impegnati, sembrano slogan grossolani

Se volete ritrovare lo Stato libero di Litfiba, riascoltate la Trilogia del potere

I Litfiba nel 1985

Foto: Luciano Viti/Getty Images

«Ho ritrovato nelle parole di 35 anni fa un’attualità imbarazzante», ha detto Piero Pelù nella data zero del tour L’ultimo girone, che nasce per dire addio definitivamente al progetto Litfiba. Il tour dello scioglimento annunciato è caduto nel periodo della guerra in Ucraina e la band sembra si sia – prevedibilmente – concentrata sul suo passato, in cui le canzoni erano venate di pacifismo, critica sociale e spessore esistenziale. Non che in ogni disco, anche il più recente, siano mancate certe tematiche, ma c’è una differenza abissale tra il primo periodo della storia dei Litfiba e i successivi, quantomeno a livello di autenticità. Non a caso lo stesso Pelù nel fare esempio di testo attualissimo su certi argomenti cita Lulù e Marlene, presente in Desaparecido. E che, secondo il cantante «è ora nei sotterranei di Mariupol». Si tratta di un brano scritto nel 1985 e non certo nel 2016, data del loro ultimo album di inediti.

In effetti pensando allo sbandierato scioglimento dei Litfiba si rimane un po’ dubbiosi. Perché i Litfiba in fondo si sono sciolti almeno tre/quattro volte e in ogni occasione la band ha tenuto solo il nome, ma non la sostanza. Con la dipartita di Ringo De Palma e Gianni Maroccolo nel 1989 per entrare nei CCCP Fedeli alla Linea, poi CSI, il gruppo poteva e può essere anche oggi considerato praticamente finito. La risurrezione del 1990 con i soli Pelù e Renzulli, circondati da session man tutto sommato innocui, li ha traghettati fino alla terza fase, quella con il cantante Gianluigi Cavallo che sostituiva un Pelù diretto verso la carriera solista a causa dei rapporti burrascosi col socio.

Insomma, a un certo punto chiamare la band Litfiba era quasi ingiusto. Meglio considerarlo un progetto, un lavoro. E la quarta fase, quella della riconciliazione tra i due, sembra appunto questo. Mi ha sempre dato la stessa impressione la fase politica dei vari El Diablo o Terremoto, dove tutto era centrato per essere dalla parte del giusto, tutto in un certo senso calibrato per smuovere le coscienze di chi in fondo ha già coscienza oppure, cosa diffusissima, di chi vuole sentirsi dire quello che gli piace credere. Nella Trilogia del potere di Desaparecido, 17 re e Litfiba 3 questa sensazione non c’è: ci sono invece delle canzoni potentissime fatte in primo luogo di poesia che le rende qualcosa di eterno e di condivisibile come condizione vitale prima che politica. Non c’è spazio per i facili slogan alla Dimmi il nome (che volendo è anche forcaiola), ma anzi c’è la struggente Louisiana, forse una delle canzoni più belle e toccanti contro la pena di morte, per i diritti umani inalienabili, soprattutto di chi ha sbagliato. Sembra incredibile che Pelù sia il medesimo autore di una roba imbarazzante come “Spirito libero e son contento quando mi balli dentro”, eppure è così e se cerchiamo quello stesso Piero nei testi di Ci sei solo tu, grandissimo anthem contro la neopsichiatria e i suoi abusi, pensiamo che forse sia stato sostituito da un sosia prima dell’arrivo di Cavallo.

Forse il successo fa brutti scherzi. Se confrontiamo ad esempio il testo di Maudit con quello di Eroe nel vento non c’è paragone, evidentemente la megalomania è entrata in circolo a ogni copia venduta. A versi come “Sarò il corto circuito nella stanza dei bottoni per sciogliere i veleni delle tue decisioni” i primi Litfiba rispondono con “non sarò eroe / non sarei stato mai / tradire fuggire / è il ricordo che resterà”, tirando fuori metaforicamente i kamikaze giapponesi e immaginando uno di loro che rifiuta di farsi esplodere col suo aereo. Da una parte quindi un’ostentazione artificiale di poter fare chissà quale eroico sabotaggio e dall’altra un inno alla diserzione. È evidente l’abisso tra il temino da terza media e la ispirazione da eterni dannati.

Nella raccolta Sogno ribelle troviamo cose come Linea d’ ombra, in cui si parla sì di obiezione di coscienza e di disobbedienza civile, ma in modo talmente telefonato da sembrare un esercizio di stile. In Eutòpia c’è In nome di Dio in cui partendo dall’episodio del Bataclan si parla di conflitto nucleare, ma come si fa ad affezionarsi a versi privi di mordente come “la verità è che siamo già nella Terza guerra mondiale”? Vengono invece in mente – di contro – pezzi come Istanbul e Guerra dove con ermetismo efficace e concreto ma nello stesso tempo evocativo si riassume un sentimento di terrore e smarrimento attraverso quelle “ombre di uomini neri / Guerra / Ma che cosa mi succede / E dove sono gli occhi di / Uomini neri!”. È universale e credibile perché non fa leva tanto sull’idea del reportage simil-giornalistico quanto sull’emozione condivisa da qualunque essere umano, soprattutto dal nemico che viene così battuto sul campo dell’emotività.

Non che nei Litfiba “maturi” manchino le perle. Nel live Colpo di coda troviamo l’inedito Africa, che riferito al Nobel per la pace dato a Nelson Mandela nel 1993 sembra tornare ai vecchi fasti almeno come sintesi tra evocazione e attualità. Pare fosse un brano mai completato dei primi tempi ritirato fuori e rimaneggiato per l’occasione. Persino Cavallo riesce a scrivere un testo come quello di Elettromacumba, che pur tra qualche ingenuità riesce a dipingere il quadretto di un’era digitale invasiva (“scatena il voodoo digitale / nel bunker di chi sa tacere” è una sintesi convincente che porterà il brano nella top 5) e propagande di nuovi dittatori. E lo fa in maniera più centrata di Lo squalo contenuto in Grande nazione: come si fa ad ascoltare senza arricciare il naso parole come “io mangio mangio perché ho il coraggio / perché sono l’opportunista a corto e lungo raggio”?

A volte poi c’è un silenzioso flitrare con il pop italiano travestendosi da alternativi, ad esempio in Prima guardia, sempre da Terremoto. I Litfiba affermano sia stata ispirata da Buzzati e arriva 15 anni dopo i Pooh di Classe ’58, che nel 1978 denunciavano già l’assurdità della leva obbligatoria quasi con la stessa poetica. Nei primi Litfiba l’originalità dei testi è invece innegabile, cristallina. Viene quasi da un altro pianeta, quello di Krypton (per citare una delle loro prime prove discografiche, l’Eneide di Krypton commissionata dall’omonimo corpo di ballo).

Comprendiamo lo stupore di Pelù che rilegge i vecchi testi: anche noi, lo ammettiamo, non ne veniamo a capo. Adesso i Litfiba sembrano lontani da quelli che suonavano Come un Dio, che cinicamente rifarebbe gli uomini “come ora / occhi per non vedere / bocche per non parlare / meglio così”. Lo Stato Libero è quindi di Litfiba o dai Litfiba? Lo scoprirete vedendoli dal vivo.

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