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Se l’avventura chiama, Lorenzo di Münchhausen risponde

Il buono e il meno buono del candore, dell’entusiasmo, dell’artigianato, dell'allegria, del sentimento popolare, con o senza meccaniche divine, nelle nuove canzoni del ‘Disco del sole’ di Jovanotti

Foto: Maikid

Che poi in definitiva basterebbe dire questo. Basterebbe dire che Lorenzo dà il meglio quando s’abbandona all’entusiasmo, al candore direi fanciullesco del far musica, a quel suo modo magari imperfetto però vitale di reinventare ogni volta un pezzetto del pop in cui vive, o di provarci almeno.

Succede in alcune delle cinque canzoni prodotte da Rick Rubin che ha pubblicato oggi e che sono parte del disco-non-disco che sta prendendo forma. Siccome gli album non li ascolta più nessuno, Jovanotti ha deciso di pubblicarne uno a puntate. Quattro settimane fa è uscita Il boom, con coda di 26 remix. Ora è la volta di La primavera e di altre quattro canzoni che compongono una specie d’EP vario e colorato e vagamente fiabesco, poiché racconta il mondo come una favola incantatrice e un po’ magica, la vita e l’amore come avventure piene di cose.

È un’operazione formato Spotify, nel senso di quel che ha detto tempo fa Daniel Ek. Il boss della piattaforma ha suggerito agli artisti di non fare un album e poi sparire, ma di continuare a diffondere musica, di non interrompere il flusso, di restare presenti nelle vite digitali di noi ascoltatori. Magari Lorenzo c’è arrivato per altre vie, ma è quel che sta facendo col Disco del sole, come ha chiamato il suo album-non-album, e che immagino farà da qui all’inizio del Jova Beach Party del 2022: esserci, uno o più pezzi alla volta.

Nel presentare queste canzoni Lorenzo ha tirato in ballo il film del ’70 con Jack Nicholson Cinque pezzi facili. «Il film non lo ricordo», dice, «ma il titolo italiano è bello, mi fa pensare a queste mie nuove canzoni che escono oggi, parte di un flusso di canzoni che usciranno nei prossimi mesi, imprevedibili e libere, per niente facili perché per esistere hanno dovuto piovermi addosso dallo spazio profondo, ma leggerissime perché qui dentro c’è una luce. Quel punto di luce che c’è nel centro della metà oscura del simbolo del Tao, pronta a riversarsi traboccando fuori in forma di canzoni che non chiedono niente perché hanno solo voglia di offrirsi».

Forse sono io, ma trovo a volte in alcune canzoni di Lorenzo una sensazione di precarietà, come se potessero essere montate e rimonate di continuo, come se improvvisamente lui potesse smettere di cantarle e dire «non sta insieme, proviamola in un altro modo», una sensazione bilanciata da dosi massicce di entusiasmo e spudoratezza. Lo sento vagamente in una canzone d’amore chiamata I Love You Baby, dedicata a «una ragazza che deve scalare una montagna, attraversare l’oceano a nuoto, baciare un rospo in bocca senza nessuna garanzia che si trasformerà in principe». La sento in Tra me e me, basta su una linea di violoncello di Davide Rossi che Lorenzo ha voluto «alla Bach» (il Dio della musica deve avere tuonato minaccioso). Un amore come il nostro invece è diversa. È una ballata che solo Lorenzo poteva ideare tanto è nuda, tenera, disarmante. È una di quelle canzoni che sembrano camminare su un confine, col rischio di finire da una parte (la retorica) o dall’altra (l’ingenuità), con l’immagine del sole che sorride come nei disegni dei bambini che finisce per raccontare la canzone stessa e come reference non molto evidente Somethin’ Stupid dei Sinatra, padre e figlia.

La reference di La primavera è invece palese. Lorenzo l’aveva scartata, Rubin l’ha voluta recuperare. Capita ogni tanto che Lorenzo scriva nello-stile-di e che lo faccia in modo sfacciato. Qui il riferimento a Battiato è talmente manifesto da sembrare un omaggio, anche se in certi passaggi il testo s’avvicina pericolosamente alla parodia modello Stefano Bollani: “Mentre studiavi Caravaggio all’Accademia d’arte i turchi pattugliavano il confine con la Siria”, il profumo del ragù che si mischia con “incensi che sono fabbricati da millenni nel Kerala”, Rossini che “con la musica evocava i cinque sensi”. Meglio l’allegria sfacciata di Border Jam, un pezzo vagamente anni ‘60 mosso da un entusiasmo irreale, infervorato, bambinesco in cui si fa politica coi “miao miao” degli Artistogatti al Colosseo.

Dice Lorenzo che Rick Rubin vuol sentire da lui soprattutto le cose di cui si vergogna un po’, «perché le cose forti si trovano quasi sempre oltre al pudore e alle zone comode». Ho un problema con la retorica dell’uscire dalla comfort zone che trovo oramai insopportabile, ma l’idea di andare oltre il pudore mi pare essenziale per Jovanotti e per questi cinque pezzi facili e spudorati anche nei loro pregi e nei loro difetti.

E del resto delle mancanze di Lorenzo tutto sappiamo e tutto s’è detto, a partire dal piacionismo, dall’intonazione festosamente approssimativa, dalla mancanza di sottigliezza, dagli slanci vanagloriosi, da certi pezzi francamente bruttarelli, dalla mancanza di sesso e pericolo che emerge invece dalla musica di altri accesi sostenitori del ballo come esperienza comunitaria (vedi Cosmo). Per alcuni Lorenzo è persino diventato misura della uncoolness e quindi della loro presunta coolness. Ma non c’è motivo per prendere Border Jam oppure Un amore come il nostro per qualcosa di diverso da quel che sono: canzoni pop innocenti, gioiose e ferventi che ci ricordano che la musica può essere anche così, un miscela di semplicità, artigianato di livello, voglia di parlare a tutti. E che questa cosa, questo sentimento popolare lo puoi esprimere con fantasia e senso dell’avventura oppure come fanno altri in modo sciatto. Credulone e romantico, se Lorenzo dovesse scegliere tra la vita e la morte sceglierebbe l’avventura. Voglio dire che non sempre ci riesce, ma sempre ci prova.

Che poi è da vedere quanto queste canzoni parlano a tutti, nel 2021. Il boom ha ottenuto risultati scarsi in termini di streaming e pressoché nulli in classifica: non è entrata nemmeno nei primi 100, una cosa anomala per uno come Lorenzo. Come andranno queste nuove canzoni lo si vedrà, sempre ammesso che sia importante, che conti qualcosa. Nel video diretto da Tommaso Ottomano di La primavera Lorenzo è un Barone di Münchhausen che cavalca una palla di cannone. Così come il Barone si prendeva gioco con le sue storie strampalate della cultura da salotto dell’epoca sua, Jovanotti sfida quest’epoca di musica con la sua eccezionalità. Mi chiedo se non si senta spiazzato o magari superato dalle canzoni di Marracash o di Salmo che sembrano raccontare la contemporaneità meglio delle sue, e persino con più successo commerciale, una cosa un tempo inimmaginabile. A me pare che vada dritto per la sua strada seguendo la fantasia, assecondando la voglia d’avventura.

Altri hanno certezze granitiche, lui dice che «il mio problema è che non ho molte opinioni, ho piuttosto delle sensazioni» e, meno male che qualcuno lo pensa ancora, «se interrogo le mie opinioni il mio parlamento interiore si divide su quasi tutto». È fuori dai salotti buoni e dai giri cattivi, è fuori dai trend e dentro un mondo tutto suo, jovanottesco, che trova realizzazione soprattutto dal vivo dove l’energia, il repertorio, la fantasia, la progettualità e la musica non mancano mai. Il suo talento e i collaboratori di cui si circonda lo aiutano a tenersi una spanna sopra altri cantanti di successo, parlo di quelli strapopolari che vengono da altre epoche e che non meritano come invece merita lui d’entrare coi suoi eccessi e i suoi difetti e il suo ego (però generoso) nella lega degli straordinari gentleman del pop italiano.

Va detto pure che Lorenzo ha un po’ del fanfaronismo del Barone, ma è il fanfaronismo d’un eterno entusiasta, è contagioso ed è facile perdonarglielo. E perciò quando dice che queste canzoni gli sono piovute addosso dallo spazio profondo, così come quell’altro diceva d’essere uscito dalle sabbie mobili tirandosi da solo per i capelli, viene quasi da credergli.

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