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Se cercate le origini della grandeur di Freddie Mercury, riascoltate ‘Queen II’

Nel disco del ’74 amato da Cobain e Axl Rose la band s’allontana dal modello dei Led Zeppelin e inizia a usare lo studio di registrazione come uno strumento, preparando il terreno a ‘Bohemian Rhapsody’

Foto: Michael Putland/Getty Images

Non si può certo dire che, alla fine del 1973, i Queen siano la next big thing del panorama musicale britannico. Da lì a un paio d’anni entreranno nelle case di tutti grazie al successo di Bohemian Rhapsody e di A Night at the Opera, ma al momento si trovano senza una sterlina, con un album di debutto acerbo, snobbato dal pubblico e incompreso dalla critica. Eppure, la band non ha smesso di credere nelle proprie capacità, tanto da presentarsi al nuovo anno con rinnovato entusiasmo e un pugno di canzoni già pronte per un imminente seguito.

Le registrazioni di Queen II iniziano quindi poco dopo la pubblicazione del debutto e, per certi versi, ne rappresentano la naturale evoluzione. Pur non essendo stato ideato per essere un concept album (le tematiche delle canzoni sono tutte slegate l’una dalle altre), invece di presentare i classici lati A e B, Queen II viene diviso in cromaticamente in due parti, una bianca composta da Brian May e una nera ad opera di Freddie Mercury, intervallate dall’unico brano composto da Roger Taylor.

Se le tematiche restano sostanzialmente quelle di sempre, più sentimentali quelle di May e più legate al mondo fantasy quelle del frontman, così come certi rimandi a Who e Led Zeppelin, quello che differenzia la band di Queen II da quella dell’esordio è la notevole consapevolezza nei propri mezzi che, unita alla maturazione di ogni membro, porta ad esprimersi su livelli inimmaginabili solo pochi mesi prima.

Se le canzoni concepite per il primo album provenivano in parte dalle loro esperienze musicali precedenti ed erano ancora strettamente connesse ai live durante i quali erano state perfezionate, con Queen II i musicisti iniziano a pensare allo studio come a un luogo in cui osare soluzioni non necessariamente riproducibili dal vivo. L’idea di Mercury era quella di spingere le possibilità che la tecnologia offre fino a livelli che nessuno, nemmeno i Beatles post ’67, ha toccato in precedenza. Questa libertà creativa svincolata dalla dimensione live dà frutti immediati: brani come Ogre Battle e The March of the Black Queen rompono gli schemi dell’epoca e fanno intravedere il futuro di una band che da lì ai dodici mesi successivi ribalterà tutte le regole del rock classico.

Tutta la grandeur che permeerà gran parte della loro produzione successiva nasce insieme ai brani di Queen II, che possono contare inoltre sulle innovazioni di Brian May, uno dei pochi chitarristi sulla piazza a non partire dagli stilemi blues tipici dei guitar hero dell’epoca come Jimmy Page, Eric Clapton o Jeff Beck. Non stupisce quindi che addirittura alcune idee che finiranno su A Night at the Opera, come la visionaria e ultra-stratificata The Prophet’s Song, nascono proprio in quel clima di totale libertà creativa.

Proprio per tutti questi aspetti, Queen II ancora oggi, a cinquant’anni dalla pubblicazione, resta uno dei dischi più importanti degli anni ’70. Non a caso, personaggi spesso agli antipodi come Kurt Cobain e Axl Rose, ma anche Billy Corgan e Steve Vai non hanno mai fatto mistero di considerarlo uno dei dischi fondamentali per la loro crescita musicale. Eppure, se non fosse stato per il successo di Seven Seas of Rhye (già presente nel disco di debutto come semplice accenno strumentale), il destino del disco sarebbe stato sostanzialmente il medesimo di Queen, tanto da essere bollato frettolosamente dalla rivista Record Mirror come «feccia glam».

Non è che l’inizio dell’anno decisivo per il futuro dei Queen. Complice una lunga assenza di Brian May, fermato prima da un’infezione successiva a un vaccino e poi da una terribile epatite, la band è costretta a un lungo stop forzato dai concerti che, di contro, permette di tornare immediatamente in studio finendo per pubblicare a novembre un altro album, Sheer Heart Attack. La momentanea defezione di uno dei due principali autori lascia inevitabilmente più spazio a Mercury e alla sua voglia di stupire. Anche per questo, Mercury decide di semplificare il sound dei brani rendendo la struttura meno complessa. Per la prima volta, poi, anche John Deacon dà un apporto compositivo con Misfire, un brano dal testo trascurabile ma che mostra una sensibilità musicale che sfocerà poche settimane dopo nel successo radiofonico di You’re My Best Friend. E poi c’è Killer Queen con cui Mercury porta il glam di Bowie e Bolan a livelli di complessa raffinatezza che lo rendono uno dei singoli più trasmessi dell’anno.

Unendo tutte le sfaccettature di questi due dischi, il proto metal luminoso di May, l’animo istrionico e vaudeville di Mercury, le sfuriate rock‘n’roll di Taylor e il gusto per la melodia di Deacon, i Queen riescono nell’impresa di coniare un suono inedito. Pochi mesi dopo nessuno parlerà più di brutta copia dei Led Zeppelin, dei power chords alla Who, di glam, progressive o psichedelia. Perché con A Night at the Opera, nato dall’unione dei lavori che l’hanno preceduto, i Queen diventano a loro volta termine di paragone.

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