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Se ascolti i Motorpsycho diventi subito fan

In occasione dell’uscita del nuovo album ‘The All Is One’, abbiamo chiesto ad Andrea Scarfone dei Julie’s Haircut di raccontare il fascino della band norvegese. C’entrano concerti impeccabili, perfezionismo, interplay

Se ascolti i Motorpsycho diventi subito fan

Motorpsycho

Foto: Geir Mogen

Non più di un mese fa ho scoperto un disco di musica elettronica pubblicato in poche copie nel 1986 proprio nella mia città, Reggio Emilia, da quello che sarebbe diventato uno dei più noti imprenditori italiani, Luigi Maramotti, patron di Max Mara. Il disco si intitola Knot Music – Musica per ascolto distratto. Ebbene, vista l’attuale fruizione della musica, forse quella di Maramotti è stata una lungimirante provocazione che mi ha fornito una perfetta chiave di lettura non solo per il nuovo lavoro dei Motorpsycho The All Is One, ma più in generale per la ormai pluridecennale produzione musicale della band norvegese: i Motorpsycho non hanno mai fatto musica per un ascolto distratto.

Ammetto colpevolmente che il mio primo ascolto di The All Is One è invece stato distratto. Non ho subito colto la caratura dell’opera, che è emersa in tutto il suo splendore dopo averla ascoltata con la giusta attenzione. Ultima parte di una trilogia iniziata nel 2017 con The Tower e proseguita nel 2019 con The Crucible, The All Is One è sostanzialmente diviso in due parti. Tutte le canzoni, testa e coda del disco, sono state registrate in Francia, mentre la monolitica suite in cinque parti, cuore centrale del lavoro, viene da una session registrata successivamente in Norvegia. Per la prima volta dopo tanti anni ho ritrovato una band capace di spaziare con credibilità tra i generi in un lavoro coerente. The All Is One è un lungo viaggio che merita di essere consumato per intero senza interruzioni.

Avevo grandi aspettative per questa uscita. Da fan di vecchia data ero costantemente in attesa di una svolta dopo il cambio di direzione preso in seguito alla separazione dal batterista storico Håkon Gebhardt. Da musicista so quanto è importante e quanto pesa lo stile del batterista nell’economia di una band. Dopo Håkon, che ha contribuito a comporre alcuni dei loro dischi fondamentali (Let Them Eat Cake, Trust Us, Timothy’s Monster per citarne alcuni) il capitolo batteria è diventato un problema per i norvegesi, che si è parzialmente risolto con l’ingresso di Kenneth Kapstad, traghettando la band tra il 2008 e il 2016 in quello che per molti ascoltatori è stato un periodo eccessivamente prog, con composizioni tecnicamente eccezionali, ma spesso di minor presa a livello emozionale.

Nel 2017 l’arrivo di Tomas Järmyr (già dietro i tamburi con i nostri connazionali Zu) ha spostato nuovamente gli equilibri in una direzione che credo sia più congeniale ai fan di vecchia data, riportando alla formazione un drumming stilisticamente più versatile che da un lato li ha portati verso nuove sonorità, ma dall’altro inevitabilmente ha consentito quel tipo di composizione eterogenea che ha caratterizzato la band negli anni ’90, capace di spaziare dal folk a cavalcate prog/psichedeliche, per la felicità di chi, come me, della musica è onnivoro. Le avvisaglie che qualcosa stava succedendo le ho avute durante l’ultimo concerto a cui ho assistito al Locomotiv di Bologna con una band in stato di grazia come da tempo non mi capitava di vedere e sentire (anche grazie allo straordinario Reine Fiske alla chitarra, ormai collaboratore fisso).

Foto: Geir Mogen

Seguo i Motorpsycho dal loro terzo album Demon Box del 1993, ma non li ho visti dal vivo fino al 15 maggio 1998 al Maffia Club, per il tour di quello che viene considerato uno dei loro capolavori, Trust Us. Vederli dal vivo è stata una folgorazione e da quel concerto credo di averne persi ben pochi, nei loro abituali passaggi italiani, avendo ormai all’attivo circa una ventina di live in un lasso di tempo di 22 anni. In questi anni ho avuto modo di collezionare circa 65 tra vinili e CD, la quasi totalità della loro produzione, li ho conosciuti di persona (con uno di loro ho diviso anche il palco) e l’anno scorso sono stato in visita nella loro città (Trondheim). I Motorpsycho non sono una band particolarmente nota fuori da un certo circuito di appassionati, anche se in Italia esiste una fan base di “psychonauts” particolarmente fedele e presente. Da musicista e amante di un certo approccio legato all’improvvisazione e all’interplay libero con gli altri musicisti durante i loro concerti mi sono sempre chiesto come potessero essere così coesi ed efficaci durante le jam, vero fulcro delle esibizioni. Ho trovato alcune risposte alle mie domande guardando il loro DVD Haircuts che in due dischi contiene un live integrale, catturato nel periodo a mio avviso più interessante, oltre a un certo numero di documenti di vita quotidiana che spiegano come per loro suonare sia una grande passione, ma anche un lavoro. Un lavoro che amano molto e che li spinge a provare per ore, quasi quotidianamente.

La collocazione geografica della loro città, luogo splendido, ma in cui molto probabilmente non è facile vivere specie d’inverno, li aiuta in questo senso. Anni fa durante una lunga chiacchierata con Gebhardt è emerso un particolare che mi ha ulteriormente confermato il loro livello di perfezionismo. Håkon mi disse che spesso si trovavano a discutere dopo i concerti su dettagli che non consideravano ben riusciti dell’esibizione appena terminata. Particolari che come spettatore, volendo anche più attento a certe sottigliezze da musicista, non mi sono mai balzati all’orecchio, reputandoli sempre impeccabili e capaci ogni volta di prendere a bordo della loro astronave il pubblico, spesso e volentieri anche per concerti che superavano le tre ore.

Da qualche anno al loro fianco c’è un roadie olandese, una specie di Gandalf delle valvole di nome Tös. Viene dall’hardcore e attualmente milita come musicista nella nota band drone metal Sunn O))). Gli ho detto quanto sentissi presenti i Grateful Dead nell’attitudine dei Motorpsycho e lui quasi si è offeso per il paragone, dicendomi che non c’era nulla di affine con quei «fricchettoni americani». Non so spiegare esattamente cosa ci sia nella loro formula, quale sia l’ingrediente capace di trasformare i loro ascoltatori in veri e propri adepti. La maggior parte del loro pubblico è formato da fedelissimi, un po’ come i Deadheads, i fan dei Grateful Dead, gruppo che con buona pace di Tös è sicuramente molto vicino come impostazione ai Motorpsycho. A differenza dei Dead, i tre norvegesi però sono stati capaci di spaziare musicalmente così tanto da accontentare tutti gli ascoltatori, inclusi quelli più radicali come Tös.

Per un ascoltatore novizio non è facile avvicinarsi alla band nel 2020, dovendo districarsi in una discografia davvero estesa e variegata. Per questo motivo ho realizzato una playlist su Spotify che raccoglie i miei brani preferiti e attinge da tutti i loro dischi, frutto di trent’anni di carriera: la trovate qui. Per chi invece vuole farsi un’idea del loro potenziale live consiglio questo canale Vimeo che contiene alcuni live molto interessanti.

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