Sanremo è il vero teatro degli orrori | Rolling Stone Italia
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Sanremo è il vero teatro degli orrori

Abbiamo torturato Pierpaolo Capovilla, costringendolo alla visione integrale della prima puntata del Festival. Alla fine non ci ha ringraziato, ma dopo una vodka e alcune bestemmie ha raccontato la sua esperienza

Sanremo è il vero teatro degli orrori

Patty Pravo e Briga sul palco dell'Ariston. Foto Daniele Venturelli/Daniele Venturelli/Getty Images

E così ieri sera s’è consumata la prima serata del sessantanovesimo Festival della Canzone Italiana di Sanremo, l’appuntamento televisivo più importante dell’anno. Il “servitore” del Festival, Claudio Baglioni, servitore al servizio di questa “fragile creatura”, “fragile perché si basa sull’arte più piccola e più povera della musica, la forma canzone” (tutti i virgolettati sono parole sue), si è speso in un discorso di presentazione elegante e gentile, nel segno dello smussamento delle polemiche con Salvini. Un bel mazzo di rose rosse alla neo-direttrice (e non “direttore”, perché è donna, o no?) di Rai 1, “senza alcun sottinteso, ci mancherebbe”. E ci credo.

Nella pubblicità ufficiale vediamo Claudio Baglioni cadere rovinosamente dalle scale dell’Ariston, e rialzarsi più bello e sorridente di prima. E vai Claudio, si vede che sei uno che ci crede nelle cose che fa. Per Claudio, da che mondo è mondo, Musica vuol dire Soldi. I soldi sono meravigliosi. Con i soldi ti compri la libertà. Parola della Santanché, che se ne intende. Per i soldi si fanno grandi cose. Puoi vendere il tuo silenzio, per esempio. Dopo tutto, e tutto sommato, non costa niente, il silenzio. Bell’affare.

Ma quella parola, “servizio”, e quell’altra, “servitore”, nascondono qualcosa. Non è difficile capire di cosa si tratti.

Si incomincia con una coreografia penosamente raffazzonata. Una dozzina di bellimbusti che ballano scatenati ti gettano subito nei ridanciani anni ottanta. Baglioni, Bisio e Virginia Raffaele, felicissima e dall’aria sbarazzina, sono eleganti esattamente come a un matrimonio di provincia. Niente è più insopportabile della provincia, diceva Pasolini. E all’Ariston, ieri sera, non c’era che essa. La provincia.


La mascella baglioniana somiglia a quella di un Buzzanca, soltanto non fa ridere. È finta come un sorriso di circostanza. Subito incomincia il suo sermone sull’armonia, e di lì a pochi secondi arriva Francesco Renga. E ti viene una gran pena per gli orchestrali, che l’armonia la conoscono eccome.

Eccoti un anziano, Nino D’Angelo, con un anziano giovane, tale Livio Cori, che è sempre sorridente, così sorridente che non si capisce che ci sia da ridere. Ti sembra quello che sorride prima che si scateni la rissa. I due si guardano, si accarezzano, si incontrano, si cantano. Brutta roba.

Nek, mai soprannome fu più indovinato, che canta “all’altezza dell’amore”. Bruttissima roba.

Vuole distinguersi quest’anno, Baglioni e il suo festival, dai talent show. Niente eliminazioni immediate. E ci credo. Chi vuoi eliminare? Ma Appino! Fuori dalle balle questi rockettari. Mi chiedo perché. Chiedo a Zen Circus: perché? Comunque sia vi voglio bene, ragazzi, e tifo per voi.

“Stringimi, baciami l’anima”. Ma che carini, Il Volo. Griffatissimi. Vinceranno. A questo punto ti chiedi: cosa può esserci di peggio? Perché Il Volo è la noia fatta canzone, è il crooning fine a se stesso, è il “bel canto” che bello non è, e mai lo fu.

Ma che cosa, se non la Berté. Pornografica, mi spiace. Perché è quella l’immagine che insegue. Stonata e volgare come non mai, peccato.

Arriva Bocelli. Il mare calmo della sera. Piano a coda, tutto per lui. Arriva Baglioni, una mascella che canta, appoggiata al pianoforte. È a questo punto che ti rendi conto che la “creatura” non è soltanto fragile, perché se la strapazzi rischi di ucciderla. Interessante vedere come Baglioni insegua il labiale di Bocelli, che, bellissimo, non lo può osservare. Arriva il figlio! Il figlio di Bocelli! Come il padre è un po’ sbarbato. L’italianità fatta ventenne.
Siamo tutti fatti della stessa materia. Piante, animali, uomini. Ma quello che conta è fare la migliore marmellata possibile. Il Nome della Rosa. Ancora.

Non so se continuare o andare in bagno a masturbarmi. 094001, cinquantun centesimi per voto. Ma perché non quarantanove?

Daniele Silvestri canta una canzone che parla di carcere. Il rapper che lo accompagna non lo conosco. È assonnato, Daniele lo sveglia e gli dice di cantare. Davvero triste. Però almeno, il Silvestri qualcosa da raccontare ce l’ha. Ma raccontarla a chi?

Passer Domesticus. Viene dall’Africa. Bisio si scatena con una filippica pro-migranti e pro-Baglioni. Pro-Baglioni e pro-migranti. Non saprei. I due Claudi al prezzo di uno. E avanti con le canzoni, una più insignificante dell’altra, ed è giusto così. Se Sanremo è, come si dice, lo specchio della società italiana, e se in questo specchio, aggiungo io, si auto-ammira, c’è poco da stare allegri. Perché siamo gente qualunque, uomini senza qualità, incapaci d’amare, e donne deformi, incapaci di invecchiare. Scusa ma non me ne importa, ci finisco sempre senza farlo apposta, sei troppo bella per essere mia, aspetto ancora una risposta, hai la luna storta.

Basta! Vi prego. Ma chi me l’ha fatto fare?

Inutile girare intorno al discorso, nel tentativo di non ferire i sentimenti di nessuno. Non vedo Sanremo dall’83, l’anno in cui c’era Peter Gabriel, che io da ragazzino amavo e ammiravo, era il mio idolo. Lo vedo ora perché devo scrivere questo pezzo, che i ragazzi di Rolling Stone attendono per stamattina.

E chi ti vedo? Ma Pierfrancesco Favino! A pezzi e spezzoni, visto che il mio wi-fi adesso fa i capricci. Nessun uomo è un’isola. E neanche un supermercato lo è. Pubblicità CONAD.

Paola Turci. L’ultimo respiro. Il diluvio universale. Respireremo nel vento.

Uno dei massimi esponenti della musica d’autore, mi dicono convinti, Motta, che in Dov’è l’Italia, canta… amore mio, mi son perso. E vai con la Nutella. Non so, in tutta franchezza, se provare pietà o provare ribrezzo. Non per Sanremo, ma per ciò che rappresenta. Il fatto è che, dopo un paio d’ore di questo carrozzone dell’inutile, non distingui più la pubblicità dalla scena reale, che non è reale, è assolutamente finta, come una falsa testimonianza, un depistaggio, una cospirazione.

Boomdabash. Vorrei averli io quegli abiti di scena. Però non indosserei scarpe da ginnastica.

Aspetto Patty Pravo e Briga. Che si prendono a calci. Lei quasi non si tiene in piedi, lui, mestamente, si inginocchia.

Siamo al teatro degli orrori.

Via al tele-voto. 094001, cinquantun centesimi. E poi ancora: Simone Cristicchi, con una lagna nuova: l’impresa più grande è donare se stessi. Anche se sarà come sollevare il mondo. Abbi cura di me, qualunque strada sceglierai. Tutto è così fragile.

Devo continuare? Continuo. Tutti in piedi per Fabrizio Frizzi. Oggi avrebbe compiuti 61 anni. Sottilette: facciamolo più spesso.

Eccomi, Son Tutta un Fremito… Giorgia. La miglior crooner, lei si, che si possa immaginare, questa volta, me lo si lasci dire, leggermente stonata nella performance con Baglioni, che aveva il microfono un po’ scomodo. E che infatti, alla fine, stona anche lui. Basta! Magari.

Achille Lauro: non c’è niente da capire. Voglio una vita così. Voglio una fine così. Rolls Royce. Basta! Magari.

Te lo devi veder tutto, questo orrore. Virginia Raffaele è una bella ragazza, e il suo sorriso è contagioso. Claudio Bisio è professionale come nessuno. Baglioni è Baglioni. Si intravede ora, perché si vede, una certa stanchezza.

Ma quando finirà questa serata? Finirà mai? Resteremo qui per sempre? Buona sera! Arisa. Mi sento bene. Prendo la mia vita come viene. Magari non è niente di speciale, faccio quello che mi va, niente mi appartiene, come i bambini, ridere non è difficile, adesso voglio vivere così… Grazie mille.

Prego. Basta!

I ragazzi stanno bene. La vita è una poesia. Ho visto l’alba, e mette i brividi. I Negrita più noiosi di sempre. Basta!

Grazie a Dio s’intrufola Santamaria, una boccata d’aria fresca. Sorrido all’idea che, anche se si tratta della Vecchia fattoria, l’orchestra ha finalmente qualcosa da fare.

Ghemon, vestito come un pagliaccio, nudo prima di spogliarsi. Bravo!

Basta! C’erano tanti, davvero tanti posti vuoti in platea. Qualcosa non va.

Ex Otago. Quando l’amore non è giovane. Abbracciami per favore. Basta.

Un applauso di pena per Adriano Pennino, che dirige l’orchestra per Anna Tatangelo, alla duecentesima prestazione sanremese. Più ti guardo e più vedo la parte migliore di noi. Siamo nudi per la prima volta. Senza il timore di fare una scelta e poi non scegliere mai. Non c’è bisogno di fingerci forti. Le nostre anime di notte non si perderanno mai. Sono più limpide che mai. È il fondo del barile.

Irama canta La ragazza con il cuore di latta. Questo cuore batte per tutti e due. Che tesoro.

Basta! Voglia di bestemmiare. Bestemmio. Mi verso una vodka, giusto per farmi coraggio.

Un plauso a Bisio, che fa finta di niente, ma che ormai è consunto, e si vede che non vede l’ora che tutto finisca, quanto prima. Enrico Nigiotti. Certe cose fanno male. Ciao nonno, stasera chiudo gli occhi, ma non dormirò. Basta, santo cielo.

Mahmood. È difficile stare al mondo. Basta!


Un Paese che si piange addosso. Che non ha il coraggio di guardarsi in faccia e di riconoscersi per quello che è. Come diceva Orson Welles in La ricotta? La borghesia più ignorante del mondo. Una borghesia piccola così, diffusissima. È dappertutto. Neanche una guerra civile ce la scrollerebbe di dosso.

Un Paese che si crede bello e armonioso, attraente, seducente, sexy, esattamente come le canzoni di Sanremo, e che invece è vecchio, claudicante, stanco, imbruttito, egoista e violento, inconsapevole, incosciente, instupidito da queste canzoni inutili, senza un vocabolario, senza una grammatica, senza una sintassi dell’oggi, senza niente, ma proprio niente da dire.

Qualcosa è andato storto, ieri sera. Quei posti vuoti in platea. Quella mascella nervosa, costretta per ore in un sorriso prigioniero di se stesso. È vero, si. Sanremo è lo specchio del Paese.

Che di profughi, di schiavi globali, di campi di concentramento, di stragi in mare, e di corruzione, di arrampicamento sociale, di demagogia, di occupazione del potere, di uxoricidio e suicidio, di cambiamento climatico, di guerra in medio oriente, della povera gente, della giustizia, dell’uguaglianza, della fratellanza, dell’umana pietas cristiana, non si parli mai più.

Canta che ti passa, è stato suggerito. E all’attenti, senza scorta. Quella parola, dicevamo, “servizio”, e quell’altra, “servitore”, nascondono qualcosa. Non è difficile capire di cosa si tratti. Si chiama censura. Ne sono uscito provato e svuotato, dalla visione e dall’ascolto di questa pantomima. Ho come la sensazione, il sentimento, di esser stato derubato. Sono più povero di prima, questo è sicuro. Un’esperienza luttuosa, mortificante.

Mi viene in mente Federico, un caro amico, uno che di canzonette se ne intende, ve lo posso assicurare. “A Pierpà!”, mi disse Federico, con quel suo bell’accento romanesco, mentre a tavola mi sfoggiava un Rolex tempestato di diamanti: “Nun ce devi annà a Sanremo. Promettime che nun ce vai”. E perché?, dico io. “Perché porta sfiga”.

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