Salmo vs Luchè, l’arte di dire la verità sparando cazzate | Rolling Stone Italia
Disso ergo sum

Salmo vs Luchè, l’arte di dire la verità sparando cazzate

Lo scontro fra i rapper è un po’ wrestling e un po’ dialogo filosofico. Non importa chi vince. Tra citazioni, datazioni, metafore, sfumature e rimandi sottotestuali, tra i due litiganti il linguaggio gode

Salmo vs Luchè, l’arte di dire la verità sparando cazzate

L’improvvisa recrudescenza, a partire da martedì scorso, dello storico beef tra due dei fratelli maggiori della scena hip hop italiana non è stata solo un’occasione piuttosto ghiotta per riflettere sull’accuratezza delle valutazioni del rapper Luchè su quanto stia risultando dimmerda l’estate 2023 del suo collega Salmo; o, d’altro canto, sulla plausibilità delle ipotesi formulate da Salmo su quale intellettuale italo-angolano potrebbe procurare sollievo, in primissima persona, a Luchè, se fosse davvero afflitto da un caso di infiammazione rettale.

La disputa, che solo in questa sua fase più recente e acuta consta di ben sei dissing (tre per mano di Luchè e tre firmati da Salmo), è innegabilmente degna di riflessioni a più riprese, modalità e registri, sia da parte di media specializzati che generalisti. Le quali, per fortuna, non stanno mancando. Tuttavia riteniamo che la vera, grande opportunità offerta dai due rapper, tra un Pisciazz e un Luca Deriso, non sia tanto quella di ragionare sulle specifiche motivazioni che li hanno condotti a reciprocarsi espressioni come Kitemmuort o Rapperino; né, Dio non voglia, di esplorare possibili soluzioni al conflitto; ma di ripensare la natura più profonda dell’atto del dissing in sé, e ciò che esso rappresenta per la nostra contemporaneità, tanto ricca di significanti quanto povera di significati.

Il fatto è che il dissing non è solo, come direbbe Jay-Z, wrestling; ma anche, come direbbe Platone, dialogo filosofico. Un dialogo filosofico non è lo sbobinamento di un reale dissidio, ad esempio, tra Fedro ed Erissimaco, ma un genere letterario in cui due punti di vista opposti e fittizi si rimpallano le reali idee dell’autore come se fossero le bacchette di un flipper dialettico. Wrestlemania non è lotta libera tra energumeni, ma un format televisivo in cui l’aderenza alle coreografie conta perfino più che in Ballando con le stelle. Allo stesso modo, il beef tra Salmo e Luchè, al pari di tutti i veri beef, cioè quelli finti, non è astio, ma la possibilità di un doppio riscatto culturale: per gli artisti e per il loro pubblico.

Questa modalità del rap – figlia dunque di un ipotetico amplesso tra Socrate e Hulk Hogan – ha a che fare, al pari di tutte le forme di espressione artistica, con una tendenza che nell’Homo Sapiens è antica e radicata quanto cacciare animali, raccogliere bacche o vendere sé stessi; e vale a dire spiegare a sé stessi (e, possibilmente, anche a qualcun altro), la complessità della realtà, sintetizzandola e rappresentandola a scopo cognitivo e/o ricreativo. Questa tendenza, che equivale sostanzialmente a dire la verità pronunciando cazzate, sarebbe l’arte. L’arte della pittura si esercita con pennelli e colori? Quella del rap si produce con beat e Kitemmuort, ma è pur sempre un’arte.

Lo sforzo creativo compiuto questa settimana da Salmo e Luchè è servito a mettere in scena una fiction dialettica che ci ha dimostrato, ancora una volta, quanto sia futile arrovellarsi per la maggior parte delle contese, che siano esse reali e per giunta gravi o simulate e per giunta frivole (ad esempio: il conflitto russo-ucraino o Pier Silvio Berlusconi vs. tatuaggi, parolacce e scollature su Mediaset). Per un semplice motivo: i dissing, soprattutto quando per un po’ ci crediamo e poi capiamo (cfr. René Ferretti), servono anche a rappresentare (con conseguenze relativamente innocue e con stili certamente ingaggianti), la morale immorale che accomuna po’ tutti i conflitti, bellici e non, della storia universale: e cioè che se, dato un qualunque motivo di divisione, che sia una guerra o Salmo e Luchè che si danno del commerciale a vicenda (il che è come se un parcheggiatore abusivo potesse finire mai vittima di una truffa dello specchietto), è talmente difficile, se non impossibile, stabilire chi abbia ragione in assoluto, che tanto vale stare a guardare mentre i due competitori hanno ragione uno per volta, nel relativo, finché l’altro non spara un altro missile o carica un nuovo video su YouTube. O, in alternativa, farsi i cavoli o i conflitti propri.

L’unica caduta di stile mostrata in questi giorni dai nostri eroi è stata, ci duole dirlo, la storia Instagram pubblicata da Salmo quasi a consuntivo del quarto episodio della saga (Stupido gioco del rap 2), probabilmente resasi necessaria a edificazione dei cronisti meno anziani e più generalisti, poco avvezzi alle modalità del rap dei loro padri, e forse anche un po’ intimiditi da alcune formule come le minacce di morte o gli inviti al suicidio. «Nel dissing ci si insulta senza pietà, è solo un gioco», ha scritto il rapper gallurese. È un testo talmente esplicito da creare quasi una distorsione logica nel contesto del beef, un po’ come quando al termine di una tragedia shakespeariana tipica, ad esempio due minuti dopo che Macduff ha, come sempre, decapitato Macbeth, i due gentiluomini scozzesi si tengono per mano mentre si inchinano verso il pubblico e, anzi, sembrano incitare l’uno gli applausi per l’altro.

Tutto questo ha avuto inoltre, come dicevamo, due ordini di ricadute positive. La prima, meno interessante, è una rivincita mediatica per i due artisti coinvolti. Come tutte le cronistorie di beef quella che ricostruisce i dissing tra Salmo e Luchè è complessa e irta di pericoli interpretativi, ma ci comunica almeno un concetto semplicissimo: disso ergo sum. È una questione di riaffermazione di sé stessi, di rivendicazione di spazio culturale e musicale per due giovani maestri del rap italiano ormai quarantenni, colti sul principio di una delle solite estati italiane anni ’20, vissute così poco pericolosamente dal mercato musicale, tra featuring di Fedez e reggaeton. È lecito pensare che i due abbiano voluto giocarsi una chance per dire ancora la loro, nei tempi e col tono di voce più consono a rapper del loro lignaggio: cioè mandando a fanculo, a più riprese, un collega in cui, guarda caso, avevano piena fiducia che sarebbe stato in grado di incassare tutti i fanculi possibili. Salmo vs. Luchè è un beef di ottima qualità (chissà che un giorno non sia collocato nella lista della più eminente casistica di riferimento) anche perché ben equilibrato. E la dice lunga sulle reali intenzioni dei due il fatto che, in fin dei conti, l’accusa peggiore che riescono a formulare – al netto di picchi di ingiuria come Damianeskin – è in fondo quella di essersi in passato complimentati l’uno con l’altro.

L’altra ricaduta positiva è stata un rigurgito di dignità intellettuale da parte del pubblico. Al contrario di quanto hanno scritto alcune testate, sarebbe fuorviante dire che questo beef abbia spaccato o stia spaccando il web. Il web è già spaccato di brutto, per sua natura o per la natura che hanno voluto infondergli, più che i suoi artefici originari, i suoi attuali gestori. Semmai questi dissing hanno contribuito a riattivare in molti fan del rap italiano, in riferimento a una vicenda particolare ma altamente simbolica, quello studente che, proverbialmente, ha le capacità ma non si applica; quello studente che possiamo diventare tutti quando, per anni, conosciamo solo pessimi insegnanti e, a furia di sentirci gridare “Money Gang”, non è solo per pigrizia che ci si atrofizza il comprendonio.

Il pubblico ha mostrato, invece, di saper afferrare il cuore della questione molto meglio dei tanti titolisti che, inevitabilmente, hanno finito per fare un po’ la parte degli Inoki o dei Niko Pandetta della situazione, gettandosi nella mischia sperando di trarne il massimo vantaggio col minimo sforzo, finché la mischia dura. Ma il pubblico sapeva benissimo da sé che prendere le parti di Salmo o di Luchè seriamente, in questa contesa, sarebbe stato come accanirsi terapeuticamente per fare da paciere tra due ospiti di Porta a Porta appartenenti a schieramenti politici opposti, di quelli che in trasmissione si giurano odio eterno e la domenica successiva si sfidano, al massimo, sul campetto da padel.

Anzi, reazioni come quelle che abbiamo letto in questi giorni sulle piattaforme socialmediali ci hanno rivelato un popolo di utenti prontissimi a muoversi tra le citazioni, le datazioni, le metafore, le sfumature, i rimandi ipertestuali, paratestuali, sottotestuali, retrotestuali. Hanno percorso, armati di una soglia dell’attenzione che finalmente ha rialzato la cresta, con la determinazione di un filologo classico – e l’agilità di un videogiocatore sparatutto – un autentico labirinto di senso. Soprattutto su YouTube è avvenuta una ritirata dei leoni da tastiera, in favore di una decisa avanzata dei topi da discografia, tra gli eruditissimi commentari che hanno fatto seguito, puntualmente, a ciascun capitolo del beef, e che non ne sono note a piè di pagina, o tantomeno glosse, ma parte integrante. Così questa forma di letteratura, nel suo fluire istantaneo tra un dissing e un controdissing (che, tra l’altro, continua mentre scriviamo), non ha contato i suoi studiosi più documentati negli atenei, ma ovunque ci fosse qualcuno abbastanza rigoroso e dissennato da avere in testa una mappa mentale, aggiornata in tempo reale, dei territori concettuali su cui, a turni, pisciavano Salmo e Luchè.

Il merito più grande di questo beef, allora, potrebbe essere quello di aver palesato quanto possa essere ancora attuale e stimolante usare le parole, sia scegliendole che interpretandole, creandole o deformandole, ricombinandole o capovolgendole. Un gioco chiamato comunemente linguaggio.

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