I cellulari hanno filmato, i fan hanno pianto, i reel hanno fatto crepare di invidia gli assenti. A conti fatti possiamo dire una cosa sui Radiohead? Il boicottaggio della band per la vicenda israelo-palestinese era veramente fuori luogo e Roger Waters ha fatto la figura del Pino Scotto inglese. Piano, non vi scaldate, ragioniamo un attimo. L’artista Waters è intoccabile, l’opinionista un po’ meno. Se il principio vale per Thom Yorke per proprietà transitiva va applicato anche al collega.
Che siamo in un momento di intensissima caccia alle streghe è chiaro, che abbiamo bisogno di nemici ogni giorno per definirci migliori del prossimo pure, ma che Waters sbraiti come Scotto fa specie. Pino è una vox populi vivente, viene interpellato come si fa a tavola a pranzo quando, per ridere, triggeriamo il nonno facendogli fare un confronto con i suoi tempi o il suo immaginario. Pino, che ne pensi di Jovanotti? E lui «datemi 10 euro che e una tanica di benzina che mi do fuoco».
Waters ha fatto la stessa cosa con Yorke che tardava a prendere una posizione sul conflitto israelo-palestinese. «È un coglione». Ma come, l’uomo che ha scritto “Hey, teacher, leave us kids alone”, uno che cantava di non volere il “thought control”, pretendeva che una band per salire sul palco dovesse avere il lasciapassare suo e di una fetta di opinione pubblica? È una forzatura.
Sul linciaggio mediatico che ne è conseguito, sugli hashtag #boycottradiohead e tutto il clamore mediatico successivo è esplicativo un video di Massimo Coppola pubblicato sul suo Instagram, intitolato “I hate Radiohead”. Per un minuto Coppola finge di fare il classico serioso che si accoda alla sassaiola sulla band, poi inscena un fuori onda in cui telefona a qualcuno preoccupatissimo: «Oh, ma tu ce li hai i biglietti? Han detto tutti “boicotta” e poi si son comprati tutti il biglietto ’sti bastardi. Eh sì, io li boicotto e vado al concerto. E che sono scemo scusa?».
La gag ci ricorda i tempi di Berlusconi quando nessuno ammetteva di votarlo, ma quello vinceva le elezioni. Tutti lì a postare sdegno online e sui siti, ma i biglietti sono durati il tempo di una sigaretta e chi non li ha trovati avrebbe dato l’anima al diavolo per averne uno. E se facessero altre 20 date di fila la storia sarebbe la stessa.
Voi mi direte: è il consumismo! Ma qualcosa non torna.
Siamo al punto che pure il migliore libro sui Radiohead uscito quest’anno, Pop Is Dead di Fernando Rennis (Nottetempo Edizioni, lettura doverosa e appassionante che consiglio a chiunque), che loda con una maestria da lezione universitaria sia il percorso artistico e coraggioso della band che la militanza politica fino almeno al 2016, verso la fine, a pagina 319, si spinge a tanto: «La scena di Yorke che torna sul palco di Melbourne, precedentemente abbandonato, per suonare Karma Police mentre il contestatore viene allontanato è allucinante. Il silenzio del gruppo di fronte al genocidio in corso a Gaza, perché così dovremmo chiamarlo, è sconcertante. I temi ecologisti, la causa del Tibet, l’adesione al Rock the Vote, il sostegno alla cancellazione della campagna del debito ai paesi poveri, i link a saggi e articoli condivisi sul loro blog li hanno resi a loro tempo un esempio di impegno civico, coraggio e coerenza. E adesso? Semplicemente non è più così. Per disinteresse, per l’età che avanza, un senso di fallimento rispetto all’idea di un internet democratico e alle iniziali speranze di dibattito rappresentate dai social network».
Allucinante, sconcertante, l’età che avanza. Quanta severità. Son abbastanza sicuro che nessuno che scrive cose del genere le direbbe mai in faccia a Thom Yorke, anche solo perché intellettualmente non so come si possa competere con l’uomo che ha scritto Pyramid Song anche quando avrà 101 anni. Senza contare che la vecchiaia non è un disvalore, anzi dovrebbe conferire saggezza. Magari l’attempato Yorke non si è pronunciato sul conflitto israelo-palestinese proprio perché sa quanto fallace sia la macchina mediatica, quanto la “viralità” di una dichiarazione (concetto non a caso mutuato dalla medicina, campo in cui indica la diffusione rapida e letale di un virus o un’infezione, niente di buono insomma) renda tutto una poltiglia senza senso. Anche perché son dieci anni che è quasi sparito dai radar mediatici. Magari per una volta ha preferito salire sul palco e cantare Paranoid Android, in cui già trent’anni fa sbeffeggiava il “Gucci little piggy”, che mi pare un messaggio molto politico.
Basta vedere un po’ di video di gente che piange a Bologna, con una band all’apice della grazia, con canzoni immortali che uniscono invece che dividere per realizzare che forse un artista debba parlare solo con la sua arte, non con i comunicati stampa. Se lo facesse anche Waters saremmo tutti più contenti. Così come se tornasse a suonare Comfortably Numb su un palco con l’assolo di chitarra suonato da David Gilmour, o Run Like Hell e Shine On You Crazy Diamond assieme ai Pink Floyd. Invece anche con loro son decenni che litiga a morte. Roger, calmati!













