Rolling Stone Italia

Rivalutare ‘The Final Cut’ dei Pink Floyd, 40 anni dopo

Una seduta psicoanalitica messa in musica. Ovvero, perché riascoltare l'ultimo album con Roger Waters, costruito a partire dagli "spare bricks" di 'The Wall'. Lo mettereste fra i cinque migliori dischi della band?

Foto: Bernd Thissen/Picture Alliance via Getty Images

Pensare che The Final Cut abbia causato lo scioglimento dei Pink Floyd è un po’ come essere convinti che i Beatles siano finiti per colpa di Yoko Ono. Certo, si può immaginare che dopo il successo di The Wall un album che contenesse almeno una hit come Another Brick in the Wall Part 2 avrebbe potuto far arrivare la band al completo almeno fino alla fine degli anni ’80, ma il livello di isteria in seno al gruppo era ormai tale da non permettere nemmeno più a Richard Wright di varcare la porta di uno studio di registrazione in presenza dei vecchi compagni.

Il quarantesimo anniversario di uno dei dischi più odiati (o amati) dei Floyd rappresenta l’ennesima occasione per cercare di dargli un posto nel mondo, quanto meno per la strettissima attualità dei testi che l’hanno fatto invecchiare meglio di altri dischi del gruppo. Ci siamo appena riempiti giustamente la testa di elogi e celebrazioni di The Dark Side of the Moon e forse nessuno gli toglierà mai il titolo di album più riuscito della formazione post Syd Barrett. Questo anche perché, al di là dell’aspetto musicale, ebbe il merito di parlare esplicitamente di malattia mentale in un periodo storico in cui l’argomento rappresentava ancora un tabù. Se però fino a Wish You Were Here il fantasma e i demoni di Barrett avevano rappresentato la principale ispirazione del gruppo, da lì in avanti i traumi di Roger Waters avrebbero preso il sopravvento.

In questo senso, The Final Cut rappresenta uno dei migliori esempi di seduta psicoanalitica messi in musica della storia. Il livello di verbosità di Waters raggiunse livelli così elevati da relegare il resto, come da scritta sul retro copertina (“A requiem for the post war dream by Roger Waters performed by Pink Floyd”), a mero contorno al servizio del disturbo post traumatico da stress del leader. Animals resta dunque l’ultimo disco dove il tema sociopolitico, pur diventando predominante, ha una caratura universale. Con The Wall e in particolare con The Final Cut il messaggio è un ibrido tra un atto di accusa verso una società in cui è impossibile riconoscersi e un percorso claustrofobico nei traumi del “genio creativo dei Pink Floyd”. Qualcosa che, va da sé, avrebbe potuto causare la rottura di qualsiasi gruppo sociale, non solo di una rock band.

Se il presidente argentino Leopoldo Galtieri non avesse rivendicato le Falkland e Margaret Thatcher non avesse utilizzato la più stupida delle guerre per riuscire a salvare il proprio ruolo di Primo ministro inglese, avremmo avuto The Final Cut? Probabilmente sì, visto che il tema della Falkland si andò ad inserire in modo naturale nell’ennesimo omaggio alla figura del padre di Waters per trasformarlo in un più organico requiem per il sogno del dopoguerra. Un’idea nata in precedenza dai pezzi rimasti inutilizzati per The Wall e che prese fuoco grazie alla scellerata decisione della Thatcher. Forse avrebbe potuto assomigliare più a un’appendice dell’album precedente, con meno riferimenti alla contemporaneità, ma non avrebbe ceduto un centimetro alla voglia di David Gilmour e Nick Mason di restare una band per tutti. E di certo non si sarebbe allontanato dal tema della guerra. «Credo che The Final Cut sia stato il disco più personale che abbia mai fatto», confermò Waters. «Parla di mio padre. Ho iniziato a fare i conti con il mio obbligo verso di lui e forse mi sono alleggerito un po’».

The Final Cut è inevitabilmente un disco per pochi, perché è così che venne concepito ed è così che è giunto fino a noi. Da questo punto di vista, quindi, l’obiettivo di Waters si può dire perfettamente riuscito. Ma siamo davvero sicuri che rappresenti ancora la pecora nera di una discografia che difficilmente smetterà di dividere? Ai tempi la stampa specializzata lo stroncò senza pietà e lo stesso Waters ha ammesso che non si tratta del disco migliore dei Pink Floyd. Tuttavia, col tempo The Final Cut è riuscito a scalare un’ipotetica classifica che lo pone, tanto per ragioni storiche che per attualità di contenuti, non come semplice raccolta di spare bricks, ma come mattone fondamentale per comprendere tanto il futuro del gruppo che quello dello stesso Waters. Un disco che difficilmente escluderei dalla top 5 delle loro creazioni.

La sensazione è che il suo relativo insuccesso commerciale (vendette comunque più di tre milioni di copie in poco tempo) fosse legato più alla mancanza di singoli da classifica che ad altro. Il che confermava in qualche modo la teoria di Roger secondo cui il pubblico dei Pink Floyd si recava ai loro show per le luci e gli effetti visivi e non per il contenuto dei testi. Tuttavia, quel sentimento di repulsione verso il proprio pubblico, giunto all’apice con il celebre sputo verso un fan ai tempi del tour In The Flesh e con la conseguente creazione di The Wall, si era paradossalmente rivoltato contro di lui nel momento in cui anche il mastodontico concept sul muro aveva ottenuto il successo dei precedenti. Un po’ come sarebbe accaduto a Kurt Cobain anni dopo, Waters rimase atterrito dalla totale mancanza di consapevolezza e di coscienza di un pubblico incapace di leggere i brani per come lui li aveva concepiti. Ecco perché The Final Cut può essere considerato a tutti gli effetti l’avo per eccellenza di In Utero: stessa voglia di distruggere coscientemente il proprio consenso, stesso malessere al limite della sopportazione riversato in musica. Tanto per l’autore che per l’ascoltatore. E se il primo tentativo di isolamento dal mondo era fallito, il successivo non mancò il bersaglio.

Non si può stare bene dopo aver ascoltato per intero The Final Cut e se anche la nostra psiche fosse in grado di reggere tanto dolore da arrivare al finale, verrebbe poi giustiziata dalla deflagrazione dell’olocausto nucleare immaginato in Two Suns in the Sunset. Tuttavia, ascoltare oggi quest’opera, senza più badare alle polemiche interne alla band che ne accompagnarono per anni le descrizioni, aiuta finalmente a non vederla più semplicemente come il primo album solista di Waters. Non si può amare The Wall senza amare The Final Cut, altrimenti vorrebbe dire non aver capito nulla della filosofia, del dolore e della rabbia che ne permeavano ogni nota.

Più che nella ricerca di pezzi meno riusciti, è forse nell’eccessiva pesantezza complessiva che va ricercato il vero punto debole del disco. Qualcosa di fisiologico in un’opera nata in quel contesto di gruppo e basata sostanzialmente sull’elaborazione di un lutto ben lungi dall’essere riuscita. Eppure definirlo un disco di scarti era sbagliato ai tempi e lo è ancora più oggi, col classico senno di poi. A Momentary Lapse of Reason e, in misura minore, The Division Bell sono lì a dimostrare che i Pink Floyd di The Final Cut erano comunque riusciti a mantenere un legame col passato, che in seguito sarebbe rimasto solo negli assoli di Gilmour e nei tappeti sonori di Richard Wright. Una musicalità capace sì di portare i fan indietro nel tempo, ma gravata da una sensazione di posticcio che in The Final Cut è totalmente assente.

Col tempo abbiamo anche capito che David Gilmour non era a favore della guerra nelle Falkland o un fervente ammiratore di Maggie, come l’aspro conflitto tra i due vecchi amici ci aveva fatto credere. Semplicemente non voleva trasformare i Pink Floyd in un gruppo politico tout court e aveva tutto il diritto di dirlo. Così come sappiamo perfettamente che Roger non impedì mai a nessuno di portare nuovo materiale in studio per discuterne la pubblicazione. «Come avrei potuto far smettere a Dave di scrivere?», ha detto anni dopo. «Che cosa avrei dovuto fare, andare a casa sua e quando prendeva in mano una chitarra in mano urlargli “mettila giù”? L’idea è assolutamente ridicola».

Semplicemente Mason e Gilmour erano meno inclini alla composizione e il tema trattato rendeva ancora più difficile farlo. Il chitarrista aveva problemi nella scrittura dei testi: come avrebbe potuto contribuire a un concept che sostanzialmente parlava di cose care al solo Waters? Sostenere però che Gilmour non abbia apportato alcun beneficio al risultato finale è sbagliato e forse figlio del pregiudizio che accompagna il disco. I suoi comunque sparuti assoli, in particolare quelli su Your Possible Pasts e The Fletcher Memorial Home, sono strazianti quanto quelli di The Wall e anche l’unica prova da cantante, Not Now John, resta uno dei momenti più intensi di The Final Cut. Non a caso, nei suoi album più floydiani a venire, penso soprattutto a The Pros and Cons of Hitch Hiking e Amused to Death, Waters si ha chiamato gente come Eric Clapton e Jeff Beck per colmare quel vuoto.

Quindi, come è stato sottolineato più volte, se è giusto vedere un comun denominatore tra album come Animals, The Wall e Amused to Death, è altrettanto giusto cominciare a considerare The Final Cut come l’anello mancante di questa catena. Soprattutto perché fino al 1983 Waters aveva usato prima Orwell e poi il personaggio di Pink per esprimere le proprie paure, mentre da qui in avanti si sentirà finalmente libero di non usare filtri. Quel che resta di universale e di profondamente attuale può essere trovato nel sogno espresso poco prima di morire dall’artigliere protagonista di The Gunner’s Dream: un mondo senza guerre, dove il cibo è sufficiente per tutti, dove gli eroi si ricongiungono alla proprie famiglie e della paura si legge solo sui libri di storia, in cui nessuno uccide più i bambini. Una sorta di trasposizione di Imagine su un campo di battaglia, un urlo primordiale, forse logorroico ma necessario e che potrebbe aiutare anche i più scettici a vedere con altri occhi l’ultimo atto della formazione dei Pink Floyd con a capo Roger Waters.

Iscriviti