Rientriamo dai balconi e facciamo qualcosa per la musica | Rolling Stone Italia
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Rientriamo dai balconi e facciamo qualcosa per la musica

L'appello di Enrico Gabrielli (Calibro 35, Winstons) che per due mesi ha suonato per i vicini di casa: l’assenza di orizzonte priva la musica della sua funzione. È tempo d'agire, anche immaginando uno sciopero della cultura

Rientriamo dai balconi e facciamo qualcosa per la musica

Illustrazione: Enrico Gabrielli

Nessuno avrebbe mai immaginato che il balcone sarebbe diventato, negli ultimi tre mesi, un altare. Da un anno vivo in una casa che ha due balconi: uno guarda all’interno del cortile e un altro su una bellissima piazza monumentale. Uno è a ringhiera, neorealista, usurato. L’altro pare Le balcon di Manet. Dal 12 marzo 2020 io e Francesca Biliotti, cantante de L’Orchestrina di Molto Agevole (per la cronaca, il mio gruppo “liscio”) facciamo un concerto da entrambi i lati: all’interno per i vicini e all’esterno per le mansarde e le terrazze dei palazzi circostanti.

Ogni giorno alle 17 vediamo le stesse persone in gesto rituale, salutare da lontano, fare segni d’assenso, applaudire sommessamente, dare l’acqua alle piante. Siamo diventati un orologio sonoro che segna il momento di passaggio serale, quando, cioè, si può tirare un respiro di sollievo che un’altra giornata è stata tramortita. Noi che suoniamo manteniamo in esercizio il flusso dell’adrenalina “da palco” che solo un’esibizione diretta riesce a generare. E mentre pasticcio accordi sulla tastiera mi viene naturale pensare a mille cose…

Penso ad esempio che quella signora là non ha nessuno a casa e che se non ci fossimo stati noi avrebbe ascoltato solamente il ticchettio dell’orologio in cucina. Penso che per quel fumatore laggiù siamo come il pacchetto di sigarette quotidiano, con la differenza che non nuociamo alla salute. Penso alla disarmante assenza di bambini, a quella coppia grigia che ci guarda in cerca di calore, allo studente che si sporge stappandosi gli earphones, alla madre che va in vacanza per mezz’ora al giorno, al clochard sulla piazza che osserva la prossemica delle persone terrorizzate. E poi penso pure a quelli che non gliene frega niente e che sono passeggeri di sé stessi, pure da fermi.

Poi però prima che la valvola della retorica sociale raggiunga la massa critica, rivolgo i pensieri a me stesso. Io di me in questa stramba prospettiva non ci capisco un cavolo. Sembra di essere in una performance di arte contemporanea, in un racconto grottesco di fantapolitica (Ted Chiang). Gli applausi che arrivano, lontani, timidi e garbati mi ricordano improvvisamente che sono un musicista e che fino al 29 febbraio 2020 (ultimo concerto dei Calibro 35 alla Flog di Firenze) facevo bagni di folla almeno tre volte a settimana. Ora quassù mi pare di essere su un ridicolo “barcone” in mezzo al mare.

Ci ho messo anni a capire (e a far capire) che un musicista ha sia una funzione che una responsabilità. La responsabilità è: fare un patto di coscienza con sé stessi e cercare di unire intelligenza e comunicazione senza mai tradirsi. La funzione è: essere un medium che usa uno strumento per restituire la musica agli altri in un luogo dove si compie il cerimoniale.

Ma se gli altri non ci sono? E se il luogo non c’è più? La funzione decade. E se decade la funzione del musicista perché continuare a farmi seghe mentali sulla responsabilità delle cose che faccio? Tanto varrebbe non fare nulla. O fare robaccia. Lo streaming? Solo un palliativo, un temporeggiamento provvisorio, una triste finestrella promozionale. La tecnologia attuale è anni luce indietro rispetto alla vita reale. Lo dico da videogamer abbastanza esperto. Penso al dramma di un’orchestra che deve suonare fianco a fianco, o a un coro che deve fare il Requiem di Verdi a bocca aperta. Secondo i pronostici iettatori della stampa dovremmo aspettare gli ologrammi…

Finito il concerto sul balcone io e Francesca facciamo l’inchino e ritualmente urliamo la parola “a domani!”. Ma ieri, per la prima volta, non lo abbiamo detto.

Adesso che è stata allentata un poco la libertà di movimento della gente, le persone che vengono nella piazza a sentire la nostra esibizione potrebbero aumentare esponenzialmente. E avrebbero pure ragione perché noi siamo l’unica attrazione live di tutto il centro storico. Siamo come l’unico piccolo alveare in una foresta piena di orsi. La domanda che ci poniamo è: ha senso confortare la gente in un momento difficile come questo (alimentando un pizzico di autostima con un po’ di plauso) quando poi il riconoscimento del nostro ruolo è sparito dai radar delle istituzioni?

Mi rispondo con malcelata frustrazione: no, ovviamente. Verrebbe da perdere le staffe per mille motivi, dal fatto che la stampa è riduttiva e subito dopo apocalittica, dal fatto che non si licenziano i direttori di giornale in piena pandemia, che le figure tecnico-scientifiche sono in dopamina da narcisismo (Burioni: stattene a casa come tutti), che la popolazione restituisce restrizioni al prossimo suo (l’anziano a zonzo che pretende la mascherina su un bimbo di 2 anni), i cecchini sociali, le paure eccessive… Se a tutto questo si toglie il beneficio dell’arte performativa in ogni sua forma virtuosa, rimane solo una specie di allevamento umano in gabbie.

Ora che serve “governare”, e non far politica, emergono le inadeguatezze. Sopra la capoccia abbiamo gente normale quando invece servirebbe gente eccezionale: a situazione straordinaria si richiederebbero persone straordinarie. Per “una parete grande un grande pennello”, si diceva. Al tavolo di discussione specifico per l’arte servirebbero dei supereroi visionari, un Rezza, un Castellucci, uno Sciarrino, una Rohrwacher, un Tresoldi, menti che conoscono il proprio tempo, che conoscono la tecnologia, la forma, intuiscono la direzione nascosta della storia. Inutili sono i classici tavoloni medievali tra Franceschini e le celebrità. Ci mancano il candelabro e il maggiordomo.

Io odio la classica visione da geometra di provincia delle priorità governative: come se la sanità fosse il pavimento e il terziario le pareti di una casa. La cultura finisce sempre per essere l’arredamento. E se anche fosse, mi verrebbe da dire, chi vive in una casa senza un letto, un tavolo o una cucina? Chi starebbe in quarantena per due mesi senza un divano, o una sedia, o un armadio? Quale uomo ha in pugno il concetto di essenzialità nel 2020?

Tutti i settori devono procedere in parallelo. Mentre si risolvono problemi infrastrutturali si dovrebbero partorire soluzioni pratiche sul come fare concerti rock o come si potrebbe andare al museo. L’una non dovrebbe attendere l’altra, anche perché fino a prova contraria le attività culturali non hanno inquinato l’aria come il sistema industriale che riaprirà entro quindici giorni a regime. Dirò di più: non sarebbe stato meglio riaprire musei, orti botanici, spazi espositivi, eventi di nuova concezione e di interesse sociale e intanto pretendere dalle grandi imprese del nord di dotarsi di energie rinnovabili prima di riaprire? Non sarebbe stato meglio invitare la gente a riprendere le auto con parsimonia e mitigare un filo la demonizzazione dell’utilizzo del mezzo pubblico? Può darsi che il corresponsabile pandemico sia anche l’inquinamento: se così fosse, la sicurezza sanitaria senza quella ambientale sarebbe un’altra sciocca mossa antropocentrica.

Questo è il tempo di ribaltare tutto quanto, tranne la cultura. Qualcuno dovrebbe dirlo a cannonate. Io purtroppo non ho alcuna potenza di fuoco, ma son giorni che parlo con amici in ogni settore per tastare il polso del malcontento che, ovviamente, è altissimo. Impossibile è trovare un’organicità rappresentativa teatro-musica-danza-arti visive-operatori-tecnici-maestranze, vuoi per la lontananza fisica vuoi per la molecolarizzazione delle vite di ciascuno. L’individualità è uno dei valori dell’arte. La miscela del forzato distanziamento e di un’assenza di orizzonte è esplosiva. Nessuno, di fatto, è con nessuno. Siamo tutti “contenuti” alla deriva. L’unica azione pratica è una gigantesca eutanasia culturale lunga due, quattro, sei giorni, quel tanto che basta per far capire alle persone che quel NULLA tarerà lo stato mentale di una nazione.

Per ora intanto tolgo l’organetto dal balcone e lo rimetto in casa. Nessuno ci toglierà dalla testa l’idea che, a modo nostro, abbiamo fornito un servizio essenziale per la comunità. Al pari di giudici, tabacchini e giornalai. E (senza peccare di presunzione) anche più di parrucchieri ed estetisti. Chissà se poi valga la pena tutta questa premura per una vita così striminzita. Essere sani fuori e morti dentro è una mezza vita. Comunque il balcone, per ora, resta chiuso.

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