M’è venuto in mente di intervistare Todd Snider nel 2007, quando lavoravo a un articolo sulle varie scene musicali di Nashville. In fin dei conti abitava e in qualche modo rappresentava lo spirito di East Nashville, l’enclave bohémien della Music City. Nel 2004 aveva persino intitolato un album East Nashville Skyline. Adoravo quel disco e quello uscito due anni dopo, The Devil You Know. Ne apprezzavo l’ironia sottile, l’intelligenza che traspariva dall’eloquio da “stonatone”, la rappresentazione della gente comune e di persone alla deriva. I dettagli delle sue canzoni-racconto mi rimanevano inesorabilmente in testa, come Play a Train Song, inno sgangherato alla leggenda di East Nashville Skip Litz, The Ballad of the Kingsmen, ritratto divertito della band di Louie Louie con commenti politici annessi oppure The Highland Street Incident, su ladri strafatti che ho poi scoperto essere ispirati a dei tizi che una notte lo avevano malmenato.
Snider non era al centro della mia storia, dovevamo giusto fare due chiacchiere di fronte a un drink. Alla fine ho passato con lui tutto il pomeriggio e la sera. Siamo passati dal bar a una session improvvisata di registrazione, dove lui ha inciso Stuck on the Corner (Prelude to a Heart Attack), una canzone su un impiegato allo stremo delle forze. Siccome gli avevo accennato al fatto che in passato avevo suonato la batteria, mi ha chiesto a sedermi allo strumento per la registrazione. Non succede sempre che un cantautore affermato inviti un giornalista fuori forma a partecipare a una vera session a Nashville, ma quel tipo di gesto, tipo «perché no?», s’accordava perfettamente alla gentilezza e al carattere alla mano di Snider. Non volendo mettermi in imbarazzo ho rifiutato e un po’ oggi me ne pento.
Quella sera siamo finiti poi da lui. Seduti di fronte a un fuoco nel retro di casa sua, abbiamo parlato di musica, soprattutto degli Stones e di John Prine, che era stato uno dei suoi mentori (aveva grandi storie su di lui). Prima di lasciarci, mi ha dato il suo indirizzo AOL e ci siamo ripromessi di rimanere in contatto.
Abbiamo iniziato a scriverci. Mi mandava messaggi lunghi e criptici scritti nel suo inconfondibile stile: quasi nessuna maiuscola o punteggiatura, una frase per riga, tipo E. E. Cummings strafatto o la rubrica di giornale scritta da Mitch Hedberg.
Raccontava storie e mi aggiornava sulla sua vita. Più d’una volta, mi ha chiesto un parere su una canzone o un album, attribuendo evidentemente più valore alla mia opinione di quanta ne meritasse. Quando nel 2013 ha pubblicato un album con una band chiamata Hard Working Americans mi sono commosso scoprendo che aveva accolto il mio suggerimento buttato lì di fare una cover di Mr. President (Have Pity on the Working Man) di Randy Newman. Mi ha scritto dopo aver finito il disco:
album è stato uno spasso
non vedo l’ora che tu lo senta
abbiamo fatto rock satanico mi sa
non troppo trasandato
anche se il nostro cantante è un po’ kristoffersoniano
L’e-mail successiva era, almeno credo, ispirata dal fatto che entrambi avevamo incontrato Lil Wayne in occasioni diverse e il rapper ci aveva soprannominati rispettivamente Conan (come O’Brien) e Rolling Papers:
hey conan
è stato bello parlare con te
grazie ancora, rolling papers
Andavo a vederlo quando suonava a New York. La parte che amavo di più dei suoi concerti erano le storie sconclusionate che raccontava tra un pezzo e l’altro e che a volte erano divertenti quanto i pezzi che incideva in studio. Mi piaceva particolarmente quella in cui raccontava di com’era diventato temporaneamente il cantante di una cover band di Memphis chiamata K. K. Rider.
Snider è sempre stato trasparente circa la depressione e l’abuso di droghe. Io avevo smesso di bere più o meno quando l’ho conosciuto e di tanto in tanto parlavamo di disintossicazione. In un’e-mail del 2014 notava che era «tornato solo all’erba ormai da un mesetto. quando finisco questa prossima cosa su cui sto lavorando. forse proverò a smettere anche quella».
In un paio d’occasioni ha deluso persone per me importanti e a quel punto abbiamo più o meno perso i contatti. Ho comunque continuato a sentire la sua musica. Ho ascoltato parecchio Working on a Song del 2019. Parla di passare una vita a cercare di finire una canzone, senza mai riuscirci. Snider dice a sé stesso di mollare la canzone, ma sa che non lo farà mai: “Rinunciare a un sogno è come realizzarne uno / È facile a parole, più difficile uscirne e farlo sul serio”.
Il pezzo che cerca di scrivere in quella canzone si intitola Where Will I Go Now That I’m Gone, titolo che canta con rassegnata malinconia. La canzone-nella-canzone sembrava alludere a qualcosa che gli faceva male dentro, la cui espressione perfetta era forse oltre la sua portata. È una mia ipotesi, non gliel’ho mai chiesto.
Greencastle Blues del 2009 è un’altra che mi è rimasta impressa. Ispirata, diceva lui da un arresto per possesso di marijuana a Greencastle, Indiana. Mescola, e questa è una cosa molto alla Snider, buio e luce ed è intonata con quel suo crooning un po’ svagato: “Questi guai riescono sempre a scovarmi / La maggior parte me li cerco / Come fai a sapere quando è troppo tardi? / Come fai a sapere quando è troppo tardi per imparare?”.
Il mese scorso Rolling Stone ha pubblicato un pezzo di Josh Crutchmer sull’ultimo album di Snider High, Lonesome and Then Some. È un disco meraviglioso, anche se non facile, di quelli che richiede qualche ascolto per essere apprezzato fino in fondo. Snider aveva avuto una serie di battute d’arresto, dalla stenosi spinale che lo debilitava alla morte di amici musicisti come Jeff Austin e Neal Casal. «Ero molto legato a entrambi», diceva Snider in quell’articolo. «Ho parlato con tutti e due il giorno in cui ci hanno lasciati. Fatico ancora ad accettarlo. Poi ci sono state un paio di storie finite. Cose che capitano». Questo, ovviamente, in un decennio in cui Snider aveva perso anche altri amici ed eroi, tra cui Prine e Jerry Jeff Walker.
Dopo aver letto il pezzo ho deciso di ricontattarlo. L’indirizzo AOL funzionava ancora. Gli ho chiesto come stava, gli ho detto che speravo che il tour in cui si stava per imbarcare non fosse sul serio (come aveva detto) il suo ultimo, gli ho ricordato che la sua musica era motivo di gioia per tante persone.
Mi ha risposto il giorno dopo e lo ha fatto come sempre in modo dolce e pieno di calore. Ci siamo scritti qualche altro messaggio. L’ultima sua risposta mi è arrivata poco prima di un episodio inquietante avvenuto Utah, quand’è stato poi arrestato. In perfetto stile Snider, in modo del tutto casuale, quell’e-mail parlava soprattutto della cantautrice Sierra Ferrell. Per coincidenza, un servizio fotografico di Rolling Stone del 2014 su East Nashville aveva immortalato una Ferrell ancora sconosciuta e Snider mi ha scritto che aveva dato una mano a Ferrell a inizio carriera, aggiungendo che ne era «un filo orgoglioso».
L’e-mail si chiudeva così:
come stai lassù?
io sto diventando vecchio quaggiù
Non è diventato abbastanza vecchio, mi rattrista non potergli più scrivere.








