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Richard Benson mi ha (quasi) salvato la vita

Richard visto da uno dei suoi miliziani: passava più tempo a curare gli eccessi che la produzione, ma ti migliorava la vita catalizzando sentimenti estremi. Era dileggio e adorazione, bestemmia e poesia

Richard Benson mi ha (quasi) salvato la vita

Richard Benson

Foto press

Il 10 maggio è finito il mondo. Abbiamo perso uno degli ultimi grandi fuoriclasse del rock: Richard Benson. Era un Maradona dello spettacolo e quindi poteva anche non suonare, e se suonava oltrepassava il concetto di musica. Era diventato famoso per i concerti in cui la folla impazzita sembrava volerlo linciare e lo insultava tirandogli addosso di tutto. Rappresentava sul palco l’esorcismo definitivo alla vita di ognuno di noi, era il catalizzatore di tutti i sentimenti estremi: la rabbia, l’amore, il dileggio, l’adorazione, lo scherno, il carisma, l’ilarità, la compassione, la bestemmia e la poesia. Nessun artista è mai riuscito a evocare una così vasta gamma di emozioni in un solo momento e soprattutto nessuno come lui è mai riuscito a sostenere sul palco una simile potenza, che gli ritornava prontamente indietro come un boomerang che a volte riusciva a prendere al volo a volte no.

Non batteva ciglio, rispondeva colpo su colpo. Per molto meno i suoi colleghi se ne sarebbero andati dal palco dopo pochi secondi. Ad esempio, Luca Carboni a Cinecittà durante un live gratuito ha annullato il concerto quando durante Farfallina la chitarra è stata colpita da un sampietrino. A Richard tiravano polli surgelati, spazzoloni del cesso, liquami non identificati e mattoni edili, ma non ha mai abbassato la testa, anzi col suo pubblico c’è sempre stato uno scambio quasi terapeutico tra inferno e paradiso. Richard era il transfert negativo e nello stesso momento l’ultimo a disinnescarlo, come testimoniato dal mitico live Natale del male, un bignami del discorso filosofico/estetico/artistico di quello che i fan chiamavano affettuosamente Er Parrucca.

Richard mi ha quasi salvato la vita in un periodo di depressione acuta. Nel 2003 circa entrai nella Richard Milizia iscrivendomi al forum e presi il nome di battaglia di Chitarra Zuccherata. Tutti in quel sito erano protesi a fare ricerca su un personaggio di cui neanche i miliziani sapevano troppo. Si andava quindi tutti insieme a ritroso nel tempo, si scopriva che era un proggher storico, che Renzo Arbore lo aveva portato in radio, lui che cavalcava i festival capelloni di Villa Pamphilj degli anni ’70, entrando e uscendo dalle formazioni all’epoca amate dai giovani (o almeno questo sembrava, perché Richard viveva di leggenda). Era un pozzo di sapere, un fenomeno televisivo, protagonista di spettacoli off teatrali e caratterista al cinema, tanto da interessare anche Carlo Verdone per Maledetto il giorno che t’ho incontrato. Si cercava materiale d’archivio e inedito, si creava e aggiornava la sua pagina Wikipedia cercando di amplificare e portare oltre il Tevere il suo credo, e chiaramente si sostenevano e animavano i suoi live facendo crescere il mito delle sue performance confrontational.

Quando arrivava qualche riccardone a commentare con aria di superiorità quanto Richard fosse una pippa alla chitarra, noi miliziani ci davamo appuntamento nel guestbook di questo presuntuoso radendoglielo al suolo con immagini pornografiche o splatter per fargli passare la voglia di fare il fico e offendere il nostro paladino. Perché solo i miliziani sapevano il senso di quel rapporto che sublimava il concetto di artista. Presto entrarono nel movimento persone che volevano solo sfogare la propria violenza, per cui io me ne andai. Perché quello per Richard non era disprezzo ma era un amore/odio tipico dei grandi sentimenti corredati dal tipico sfottò romano: un interesse che nasceva quando, teenager, lo vedevamo sulle tv private romane elucubrare sul metal e sui chitarristi tecnici. All’inizio ti dava una sensazione tra la soggezione e il fastidio, poi si rivelava completamente fuori giri, situazionista, surreale nonché pioniere delle fake news (quante volte ha detto di avere vinto concorsi di chitarra sfruttando le sue omonimie oppure si è vantato dei suoi capelli lunghi che in realtà erano una parrucca?).

Benson sembrava uscito da un fumetto di Tamburini, era quasi un cyborg, che in tempi più recenti si faceva i giubbotti da solo usando pezzi di automobile e cose del genere, capace di passare dalla dissacrazione di Steve Vai con una critica musicale al vetriolo (dove bruciava una copertina fotocopiata del CD) al raccontare barzellette in puro spirito goliardico de Trastevere. Difficile non pensare che Richard sia stato l’anello di congiunzione tra il glam androgino di Renato Zero, il coattume del metal “insopportabile” alla Michael Angelo e la fragilità esistenziale del pop melodico alla Cugini di Campagna. Una miscela che musicalmente si è espressa con una urgenza esagerata, autofagocitante. Dopo aver suonato la chitarra acustica nelle sue prime esperienze prog, eccolo diventare discretamente tecnico sulla chitarra. Pur se dotato di un talento decente, a un certo punto scavalca esercizi e tempistiche decidendo da solo di essere il chitarrista più veloce al mondo, autoconsacrandosi re della sei corde. Ed eccolo nei suoi assurdi videocorsi per chitarra, fatti con ampli giocattolo e riprese amatoriali in cui fa quattro note al secondo sì, ma tutte confuse. L’importante è la sensazione di velocità, il gusto per gli effetti speciali, come un vero futurista degli anni ’80: l’importante è la potenza del colore, il resto è accessorio.

Insomma, nella sua attività didattica Richard non solo era un talent scout (ricordiamo che fu il primo a curare una compilation metal in Italia, Metallo Italia appunto), instillava nei suoi allievi il sacro fuoco della passione nel suonare. Non importa come, ma fatelo: in questo messaggio implicito lui andava oltre il punk. Ed è vero che molti suoi allievi poi diventeranno chitarristi ottimi di formazioni metalliche romane (come ad esempio il chitarrista dei Novembre). Ovvio che dopo un tot lo abbandonavano rendendosi conto che era sopra le righe, ma portandosi dietro questo bagaglio di volontà nelle loro future esperienze. Di base il rock, per Richard, andava incarnato, un po’ come Carmelo Bene con il teatro: basta fare rock, dobbiamo essere il rock.

E quindi, passando più tempo a curare i suoi eccessi che la sua produzione, Richard ci lascia poche ma intense opere. Il periodo prog rock con i Buon Vecchio Charlie, la parentesi proto crossover che univa metal e Italo disco di Animal Zoo e Renegade, la colonna sonora del film cult L’inceneritore, il manifesto metal/spoken word di Madre tortura e quello che sicuramente è il suo capolavoro, ovvero L’inferno dei vivi, scritto a sei mani con i Tiromancino. In mezzo a tutto questo, una miriade di demo tape ritrovate per caso a Porta Portese che uno youtuber ha condiviso anni fa aprendo (nonostante la bufala, nda) il vaso di Pandora della sua produzione sotterranea, assolutamente proficua quando si pensava il contrario.

Rimane il mistero se Richard ci facesse o ci fosse. Beh, io ebbi l’onore di intervistarlo per Vice e mi sembrò di una dolcezza infinita, sempre a fianco della sua compagna Ester ma determinato a vivere la vita da personaggio contro ogni identità catalogabile. Era entrambe le cose. Un uomo che sul palco andava in guerra, quasi il nostro G.G. Allin, lui che senza volerlo ha sdoganato il noise tra i «finti medallari», come chiamava lui, che costringeva a sorbirsi assoli cacofonici, cover devastate e impro blues scalcagnate che sembravano l’altra faccia degli incubi di Capitan Beefheart (ricordiamo che in effetti partecipò a un disco industrial, quello di D.B.P.I.T., nel quale fece una comparsata nel 2003). Ed era il Richard eroe, quello che cade da Ponte Sisto in circostanze mai chiarite e sopravvive, che nonostante la paralisi della mano destra a causa – pare – dell’urto continua a imbracciare indefesso la chitarra; quello che non si arrende neanche ai problemi al cuore ed economici, tanto che dalla clinica in cui è finito, oramai passato alla chitarra acustica, continua a fare nuove canzoni e un programma YouTube che è la naturale prosecuzione del suo storico Ottava nota. L’abbiamo visto addirittura da Lundini, invitato poche settimane fa registrare una puntata pronto a tornare in pista con un nuovo singolo. Lui diceva che la morte gli sembrava quasi «una micetta», perché aveva cercato di ghermirlo undici volte senza successo. Stavolta pare che sia andata diversamente anche se a giudicare da queste cifre a vincere è stato Richard.

Richard lo ha sempre detto: «Io non sono mai morto». E mai morirà, poiché resterà per sempre nel cuore di noi SCHIFOSIIIII ULTIMIIII MEDALLARI. Stasera sacrificherò un pollo arrosto a Satana in tuo onore, Richard: riposa in pace e insegna agli angeli che la vita è il nemico.

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