Raiz: «Com’è possibile credermi complice di un genocidio?» | Rolling Stone Italia
«Livore da Inquisizione»

Raiz: «Com’è possibile credermi complice di un genocidio?»

Il cantante degli Almamegretta controbatte le accuse di chi dice che non si espone su Gaza, critica gli artisti disimpegnati che diventano proPal per ragioni di marketing, condanna i «criminali» che governano Israele, ma denuncia il «clima da caccia alle streghe»

Raiz: «Com’è possibile credermi complice di un genocidio?»

Raiz con gli Almamegretta al Viper di Firenze, 2025

Foto: Giulia Breschi

Raiz degli Almamegretta è contrario alla polarizzazione estrema delle opinioni e vede quello che sta succedendo in Palestina e in Israele da punto di visto diverso rispetto a molti cantanti italiani che negli ultimi mesi si sono espressi su quello che sta succedendo a Gaza con un post o portando la bandiera palestinese sul palco. Ebreo che si è riavvicinato alla fede solo da adulto, crede nel diritto all’esistenza dello Stato di Israele, dove ha vissuto per alcuni anni dopo essersi sposato con l’israeliana ashkenazita Daniela Shualy, scomparsa l’anno scorso. Condanna l’«atroce satrapo» Netanyahu, ma critica gli artisti disimpegnati che improvvisamente scoprono il trend proPal. Non apprezza lo slogan “Palestina dal fiume al mare” e nemmeno il progetto di un Grande Israele. Il suo caso somiglia a quelli di Jonny Greenwood e di Thom Yorke (a questo link lo scritto integrale del cantante dei Radiohead) avendo attirato critiche da parte di chi afferma che non schierandosi in modo netto e non esponendosi a sufficienza sui massacri a Gaza ne è complice.

«Non mi spiego come è possibile, conoscendo la mia storia, credere che possa “essere complice” di stermini ai danni di innocenti che vengano da qualunque parte. Addirittura di un genocidio. Come è possibile che io possa avere in simpatia un atroce satrapo come Netanyahu o, anche peggio di lui, i criminali che ha messo a governare», ha scritto ieri Raiz sui social, pochi giorni dopo il concerto che ha tenuto il 12 settembre con gli Almamegretta all’Arena Flegrea di Napoli nell’ambito del tour per il trentennale di Sanacore. Tra i commenti a un articolo uscito sulla Repubblica titolato “Almamegretta, Sanacore live è una generazione che si rialza 30 anni dopo. Per dire: Stop the War” c’è chi lo ha criticato per non avere preso una posizione netta, per non essersi esposto a sufficienza, per non aver parlato, per non aver detto che quella a Gaza non è una guerra, ma un genocidio.

«Se per qualcuno non “mi espongo” o “non mi espongo abbastanza”» scrive «non è certo perché non sono empatico con il sangue dei bambini palestinesi versato, ma perché il clima che vedo è da caccia alle streghe, il livore da Santa inquisizione, con il sacro fuoco pronto a bruciare tutto ciò che è impuro e non conforme al trend. Sorry, non fa per me».

Raiz si dice convinto che sia più utile contribuire al dialogo tra israeliani e palestinesi che sventolare una bandiera palestinese facendo il pieno di like e alimentando una macchina divisiva. «I social polarizzano le posizioni rendendole inconciliabili, fanno fare i soldi ai soliti pochi mettendoci gli uni contro gli altri. E c’è pure gente che pensa che qui si possa discutere liberamente o addirittura fare “la rivoluzione”. Non credete che ci siano molti, troppi, che avvolgendosi in una bandiera stiano facendo marketing proprio su quel sangue che dicono di voler “difendere”?».

«Io ho sempre scritto di confronto, convivenza, coesistenza. Ho affrontato la contraddizione del patriarcato, della fluidità e del sessismo quando non ne parlava nessuno e oggi vengo liquidato come “sionista” perché ho vissuto in Israele e ho una famiglia acquisita lì. La mossa più furba che avrei potuto fare sarebbe stata saltare su questo carro, riempire i miei social di angurie free qua e free là e aspettare la valanga dei like».

In una risposta a un commento, Raiz ha aggiunto che è «ovvio che chi si espone da sempre per la causa palestinese non è compreso nella categoria che menzionavo sopra. Musicisti, attori, artisti che ben conoscono la storia del conflitto e che aiutano il dibattito che porti alla pace sono al di sopra di ogni sospetto. Mi riferisco a quelli che non si sono mai nella vita spesso per nessuna causa sociale e improvvisamente si imbandierano captando il trend e giocando a fare gli impegnati».

Nel post, Raiz scrive che «ho troppo rispetto di una situazione molto dolorosa per specularci su. Laggiù ho manifestato contro la guerra, il razzismo, il governo. Ho lavorato con e sostenuto gruppi di israeliani e palestinesi che lottano per la pace, votato contro chi è corresponsabile degli eccidi terrificanti che vedete in tv. Sicuramente ho fatto molti più “fatti” io di quelli che blaterano un formale slogan muniti di kuffiah al collo. Se volete sapere come la penso, continuate ad ascoltare la mia musica. “Pe’ mezo ‘e nu nomme, ‘e na pezza che sbatte, e ‘na preghiera a Dio, ‘nfaccia sta terra s’ha da murì”. L’ho scritta 30 anni fa e ci credo come il primo giorno».

 

 
 
 
 
 
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Per avere una «prospettiva di israeliani e palestinesi che lavorano insieme per lo stesso obbiettivo» Raiz suggerisce inoltre di seguire gli account Instagram @allhostages, @hamzahowidyy, @realignforpalestine, @standing.together.english. «Pace. Dura da raggiungere, ma doverosa da perseguire», scrive in un commento. «Questo è l’unico schierarsi che mi interessa. Il resto che è? Palestina dal fiume al mare? La Grande Israele? No grazie».

Il post è presente su Instagram, ma è stato rimosso da Facebook perché, si legge nella motivazione della cancellazione, «potrebbe includere qualcosa in grado di incoraggiare la violenza e portare al rischio di violenza fisica o a una minaccia diretta per la sicurezza pubblica». È bizzarro, commenta Raiz sul social, «ho visto roba violentissima dall’una e dall’altra parte restare lì per giorni e giorni. Chissà chi si è messo di buzzo buono e ha fatto cordata per farlo rimuovere. L’insostenibile scomodità del pensare con la propria testa».

Non è certo la prima volta che Raiz si confronta con questi temi. Per fare un esempio, già 15 anni fa, quando è stato attaccato dal collettivo universitario napoletano Cau, spiegava che credere nel diritto all’esistenza dello Stato di Israele «non vuol dire essere nemico per forza di qualcun altro», né più né meno come sostenere la causa palestinese non significa sostenere la violenza di Hamas. Perché, scriveva all’epoca, «non provare a uscire dalla logica del giochino dei buoni e cattivi e capire che se un conflitto dura 60 anni e passa evidentemente ci sono torti e ragioni come in ogni conflitto da parte di tutti?».

Era il 2010 e in un’intervista al Corriere del mezzogiorno si diceva «convinto assertore della multiculturalità» e citava la raccolta di saggi dell’israeliano Amos Oz Contro il fanatismo: «Scrive che, in sostanza, spesso quando uno ci attacca pensiamo che non abbia capito ciò che vogliamo dire, ché magari non ci siamo spiegati bene. Applicare, dice Oz, tale ragionamento al conflitto tra Palestina e Israele non ha senso, in quanto ci sono da entrambe le parti ragioni sacrosante e legittime. Mettersi sulle barricate dell’uno e dell’altro schieramento non serve a nessuno, non smuove un bel niente. Crea soltanto sofferenza».

In un’intervista concessa ad Avvenire nel giugno 2024 in occasione della partecipazione al festival Ebraica a Roma, Raiz spiegava che «da sempre propongo con la musica di mettere insieme le diversità invece di farle scontrare, ma purtroppo l’uomo è fatto così. Vale la pena ricordargli i punti di incontro, senza tanti discorsi o con la politica, ma attraverso la somiglianza spicciola sul pentagramma. Se ci assomigliamo così tanto in musica, potremmo essere simili anche nel resto». Conscio che «gli artisti fanno quello che possono, ma non è con le canzoni che si cambia il mondo», pensa sia giusto «analizzare tutte le sfumature dei conflitti, mettersi al tavolino riconoscendo torti e ragioni da tutte e due le parti».

In quell’occasione parlava anche della sua famiglia. «Io e mia moglie abbiamo fatto un bel viaggio, abbiamo costruito la nostra famiglia e siamo stati uniti dalla spiritualità. Non siamo stati una coppia ortodossa secondo gli stereotipi. Io sono ebreo e ho vissuto per anni al di fuori della fede, poi mi sono riavvicinato, ho avuto una specie di richiamo. Nel percorso della crescita quando ho avuto bisogno della spiritualità, è arrivata: ho studiato con un rabbino che è un amico d’infanzia, lui mi ha fatto conoscere dei maestri più grandi. Ho fatto un percorso personale, in questo percorso ho conosciuto mia moglie, ebrea ashkenazita di origine polacca, che lavorava in quel periodo a Napoli faceva formazione aziendale per l’Alfa Romeo. Abbiamo anche vissuto diversi anni in Israele: spero che torni la pace e di poterci tornare presto».

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