Questo spartito uccide i fascisti | Rolling Stone Italia
La classe operaia marcia in undici sedicesimi

Questo spartito uccide i fascisti

Mollate le menate (cit.) e ascoltate ‘Workers Union’ di Louis Andriessen rifatta da Enrico Gabrielli e Sebastiano De Gennaro. È una storia di democrazia musicale applicata e ci riguarda tutti

Questo spartito uccide i fascisti

Enrico Gabrielli e Sebastiano De Gennaro

Foto: Giambattista Turla

Che c’entra col rock Louis Andriessen, un compositore olandese con l’aria da serissimo professore di lettere, forse lo dice quest’aneddoto. Enrico Gabrielli e Sebastiano De Gennaro, due musicisti che passano da Stravinsky agli Afterhours, da Bartók a Bianconi, stavano suonando una sua composizione intitolata Workers Union al Locomotiv di Bologna, dove aprivano per gli Zen Circus. «Sono andato in iperventilazione e dopo cinque minuti sono svenuto», ricorda Gabrielli. «È arrivata l’ambulanza, un disastro». Del resto il compositore esigeva che suonare il pezzo non fosse agevole. Quando arrivò al Massachusetts Museum of Contemporary Art per assistere alle prove di Workers Union, che sarebbe stata presentata tre giorni dopo al Bang On A Can Summer Music Festival, Andriessen si complimentò coi giovani esecutori, salvo poi bacchettarli: «Questo pezzo dovrebbe suonare difficile, mentre voi lo state facendo sembrare troppo facile. Non è jazz cubano!».

Compositore anarchico e iconoclasta, Andriessen (1939-2021) operava fuori dai circuiti accademici e concepiva la musica come strumento politico e rituale sociale. O come ha detto lui un quarto di secolo fa, «il mio compito è sottrarre la musica dal mondo del commerciale». È un anti-romantico europeo che ha reso pericoloso il minimalismo americano, togliendo ogni inclinazione mistica e facendone materiale esplosivo. S’ispirava anche alla musica extracolta. Per dirla con John Adams, che è molto più conservatore ma è pur sempre uno grandi compositori viventi, «Andriessen ha preso due linguaggi distintamente americani, il be bop e il minimalismo, li ha filtrati attraverso le tecniche ritmiche di Stravinsky e ha prodotto un suono originale». Chi ama certe frange radicali del rock e del jazz troverà questo suono stranamente famigliare.

Workers Union è del 1975 e col rock c’entra, se non altro per lo spirito con cui dev’essere suonata. La può eseguire qualunque organico, purché preveda strumenti ad alto volume (a questo link la versione dei Bang On A Can). È lasciata agli esecutori la scelta delle altezze precise delle note che sono indicate sullo spartito sopra e sotto una riga indicante il registro medio. È invece determinata, martellante e varia la parte ritmica che tutti devono suonare all’unisono e con continui cambi di metrica e spostamenti d’accenti, e quindi con disciplina direi militaresca. Tra le istruzioni: vanno evitate figure musicali convenzionali e il pezzo deve risultare «dissonante, cromatico e aggressivo».

La natura politica è esplicita non solo nel titolo (il sindacato dei lavoratori), ma nel modo in cui il pezzo dev’essere interpretato: ogni musicista lo deve fare «con l’intenzione che la sua parte risulti essenziale, esattamente come nella vita politica» in una combinazione di libertà individuale (la scelte delle altezze delle note) e disciplina collettiva (l’omoritmia). L’ensemble musicale come metafora della vita pubblica in cui il singolo vale quanto il collettivo, una democrazia musicale applicata.

Per qualche motivo, Workers Union è diventato uno dei cavalli di battaglia di Gabrielli e De Gennaro e direi anche simbolo del lavoro che fanno per portare la musica cosiddetta contemporanea fuori dai conservatori e dentro la nostra vita quotidiana, un’opera svolta coi mezzi che in quest’epoca concediamo a chi fa divulgazione musicale fuori dall’accademia: pochi.

«È stato il primo pezzo che abbiamo suonato insieme una decina d’anni fa», raccontano. Furono presentati l’un l’altro da Giorgio Prette, all’epoca batterista degli Afterhours. L’ultima loro versione di Workers Union è contenuta in Musica politica, CD uscito per la collana su abbonamento 19’40” dove sono presenti anche composizioni di Frederic Rzewski e Hans Eisler, oltre a un omaggio a John Cage (il prossimo volume sarà dedicato al Bolero di Ravel, informazioni sulla collana a questo link). È suonata in coppia ed è hardcore nello spirito, un martellamento ritmico incessante di sax alto e percussioni non intonate alla ricerca del punto dove s’incontrano libertà, velocità e precisione.

I due l’hanno suonata ovunque, dai live club ai circoli Arci, dai teatri ai centri sociali. «È una sfida in cui bisogna fidarsi l’uno dell’altro», spiega De Gennaro, «è un lavoro di perfetta sincronia molto diverso da qualunque altra cosa abbia suonato, sono 15 minuti abbondanti di ostinato ritmico da seguire insieme. È il modo migliore per imparare a suonare assieme, anche per imparare a capirsi quando ci si perde».

Ascoltatela: i due sembrano incazzati come camalli in sciopero. La loro versione fa capire quanto potente può essere la musica del Novecento. È materiale sonoro che ci ancora ci parla. «Quando la suoniamo» spiega Gabrielli «abbiamo in testa più l’immaginario underground metal che quello della classica. Non è un brano indicato per chi ha fatto studi formali tradizionali e ha una gestione “pulita” dello strumento. C’è un modo di approcciarsi allo strumento radicale, bisogna vituperare il materiale, suonare in modo cattivo. A me ha sempre ricordato la scena math rock a cui facevano riferimento gli Zu o gli Zeus!, al fatto che avevano forme simili anche se in modo involontario a Workers Union».

E poi c’è il significato politico. Per parafrasare Woody Guthrie, questo spartito uccide i padroni e i fascisti. Non a caso, Musica politica esce dopo le ultime elezioni nazionali. Non è più tempo di grandi lotte sindacali e difatti sulla copertina del disco disegnata da Gabrielli sventola una bandiera rosa. «Di rosso non c’è rimasto più niente». Ma può avere una funzione politica facendo musica per pochi, elitaria? «Puoi cercare di fare un po’ di cultura alternativa», risponde De Gennaro, «anche proporre pezzi che non sono diciamo così comodi da ascoltare è un’azione politica. Anche senza bisogno di parole. Anzi, brani come Workers Union sono potentissimi proprio perché non hanno parole».

Fa un certo effetto ascoltare Workers Union in un periodo in cui sta venendo sempre più alla luce che il sistema dello streaming sta progressivamente impoverendo i musicisti, arrivando (in campo pop) a cambiare la natura del loro lavoro: sempre meno musicisti, sempre più creatori di contenuti. Viene in mente il film-documento di dieci anni fa di Gabrielli e Sergio Giusti Unità di produzione musicale, un esperimento folle in cui una settantina di musicisti italiani venivano rinchiusi per una giornata nel capannone d’una fabbrica e costretti a fare musica abbigliati da operai. La facevano inseriti in una catena di montaggio insensata in cui erano costretti a suonare parti altrui senza alcuna apparente logica – all’epoca Spotify non era la forza egemone nel mondo della musica, oggi il padrone lo immaginiamo con la faccia impassibile di Daniel Ek. Nel film, qualcuno si ribella e qualcun altro cerca di dare un senso musicale a quella routine disumanizzante, ma non trovano una voce comune, una workers union capace di rappresentare tutti quanti, e l’unica cosa che possono fare è smettere di suonare. Dieci anni fa era un film strano, oggi è inquietante.

Workers Union gioca con lo stesso immaginario. Sono i musicisti come classe operaia che va in paradiso marciando spedita in quattro quarti, poi cinque quarti e poi undici sedicesimi e poi diciassette sedicesimi. Il fatto che Gabrielli e De Gennaro lo suonino in duo in qualche modo tradisce l’idea di Andriessen che l’esecuzione del pezzo debba evocare un’azione politica collettiva. Ma come dice spesso Gabrielli in concerto, «il fatto che a fare Workers Union siamo rimasti in due fa ben capire che fine ha fatto la classe operaia». E anche un po’ i musicisti.