Quarant'anni dopo Marley a San Siro, non ci sarà un'altra Woodstock italiana | Rolling Stone Italia
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Quarant’anni dopo Marley a San Siro, non ci sarà un’altra Woodstock italiana

Nonostante sia stato il primo di tanti rituali pop collettivi, il concerto del 27 giugno 1980 rimane irripetibile. Marley ha aperto le porte del Meazza a tutti, ma nessun altro show avrà la medesima portata politica

Quarant’anni dopo Marley a San Siro, non ci sarà un’altra Woodstock italiana

Il pubblico di Bob Marley a San Siro

Foto: Adriano Alecchi/Mondadori via Getty Images

All’ipotesi che lo stadio di San Siro possa essere demolito, la levata di scudi è stata pressoché unanime: sia per l’indubbia bellezza dell’impianto, sia per il valore simbolico. “Poi Milan e Benfica / Milano che fatica”, cantava Lucio Dalla in Milano (1979), a ribadire l’importanza sociale della “Scala del calcio”, quindi figuriamoci. Ma l’arena è storica anche per la musica: c’è una tradizione, per gli artisti italiani, secondo cui suonarci rappresenta la massima consacrazione da pop star (Vasco e il record, Ligabue, Pausini, Cremonini, Negramaro), oltre che una tappa cult per gli internazionali, dai Rolling Stones allo stesso Springsteen. Ecco, tutta questa legacy ha un inizio: il 27 giugno 1980, quarant’anni fa, col concerto di Bob Marley.

Fu il primo all’interno della struttura, e però rivisto oggi rimane un unicum, secondo un concetto di “popolare” molto diverso da quello di adesso, nonché un evento privo di una stretta eredità. Questo dipende in parte dai tempi, in parte dall’artista giamaicano – da chi fosse, da cosa rappresentasse all’epoca – e in parte da noi.

Nei ’70, infatti, l’Italia è la periferia dell’impero in quanto a musica dal vivo: sono gli anni di piombo e organizzare un concerto può essere pericoloso fra contestazioni degli autoriduttori, “processi” ai cantautori giudicati di sinistra non nella maniera giusta (De Gregori ne sa qualcosa) e bombe carta, come per Dalla. Si suona in spazi non enormi, a capienza ridotta, mentre l’atmosfera spinge molti spettatori a restare a casa e gli artisti internazionali a ignorare il nostro Paese. Poi arriva Banana Republic degli stessi Dalla e De Gregori: nell’estate del 1979, fra mille timori riaprono gli stadi (ma senza parterre) e nel segno de L’anno che verrà e Rimmel trasformano gli eventi estivi in quelle grandi adunate pop rimaste identiche fino a oggi. I due girano l’Italia, ma evitano Milano. Poi però l’anno dopo in città arriva Marley: ed è una liberazione collettiva.

Da una parte, per la sua presenza in sé: finalmente un artista internazionale, con milioni di copie vendute con le varie Jammin’ e No Woman No Cry, inserisce il nostro Paese e Milano in particolare nella propria tournée. Dall’altra, soprattutto, perché non stiamo parlando di una pop star (in senso lato, chiaro) qualunque: nonostante il successo, la sua è pura canzone politica (lo era anche quella dei cantautori, ma non in maniera così militante), arcobaleno reggae di un sogno egualitario e pacifista che parte dalla Giamaica della guerra civile (a cui, per dire, nel 1978 ha dedicato il One Love Peace Concert, a Kingston, per spingere per la fine del conflitto) e arriva all’Africa, all’Occidente e oltre il Muro. È la musica dell’impegno, nella stagione, soprattutto, dell’impegno. Che, quella sera, fa tappa davanti a 100 mila spettatori da tutta Italia, zaino in spalla ed erba in tasca (si racconta di un cappone leggendario sopra lo stadio), assiepati su due anelli (il terzo ancora non c’è) e sul prato, fattissimi a ballare, cantare: per qualcuno, la Woodstock italiana. Sul palco, intanto, un’esibizione meticcia (nel torrido pomeriggio ci sono, in apertura, Roberto Ciotti, il Pino Daniele di Nero a metà, la Average White Band: what a time to be alive), spontanea, rimasta come spartiacque. Perché poi Marley – già malato di cancro, scomparirà l’anno dopo, ma gli spettatori ignorano tutto ciò – alla fine del concerto scende dal palco e, sebbene fuori continuino le stragi (l’estate del 1980 sarà una delle più nere della nostra storia), in un attimo per noi e per tutti finiscono i ’70.

Basta tornare alla tradizione dei concerti a San Siro che citavamo all’inizio, per seguire la parabola. Dopo quella sera, Vasco, Ligabue, Cremonini per l’Italia, poi i Rolling Stones, Springsteen, addirittura Bowie, Michael Jackson. Insomma: il 27 giugno 1980 ha aperto i cancelli del Meazza alla musica, ma – a fronte comunque di un bendidio di nomi, soprattutto per quanto riguarda l’estero – un concerto simbolico e politico come quello di Marley non c’è più stato, la sua eredità è andata in una direzione diversa. E anche il nostro Paese, nel frattempo indubbiamente cresciuto nella geografia delle tournée mondiali (sono pure finiti gli anni di piombo, insomma), fatica ancora ad accaparrarsi certi show – non scordiamoci i Coldplay nel 2017, né la quasi totale assenza di rapper americani nei cartelloni.

In ogni caso, i grandi appuntamenti dal vivo si sono affermati come rituali pop collettivi, sì, ma hanno perso il loro impegno politico, il valore simbolico e di partecipazione di quarant’anni fa. Ed è proprio il tracciato che ha seguito la musica stessa dagli ’80 in poi, da quel 27 giugno al grande disimpegno. Per questo, oggi, un live come quello di Marley sarebbe inimmaginabile. Da un lato, perché non esistono fra le nuove generazioni artisti tanto esposti in politica – o meglio: possono esserci, ma soprattutto in Italia non riscuotono mica numeri da stadio. Dall’altro, i concerti non sono più occasioni in cui condividere una battaglia, che sia nella forma di un sogno astratto o di pura militanza, ma degli show pop-rock spettacolari, certo, mai rappresentativi di una lotta comune, della condivisione di ideali.

D’altronde, i ’70 in Italia erano stati gli anni dei cantautori da centinaia di migliaia di copie vendute con canzoni politiche: anche qui l’impegno era percepito come popolare, mainstream; un contesto globale in cui uno come Marley era assolutamente coerente nell’organizzare su un grande evento contro la guerra civile del proprio Paese, secondo uno spirito diametralmente diverso da quello del Live Aid, per capirci, e siamo solo nel 1985. Tornando a quella sera a Milano di quarant’anni fa, però, per “aggiornare” l’esibizione dell’artista giamaicano ai giorni nostri, sarebbe come se venisse in tour da noi un musicista che ha fatto del Black Lives Matter un credo nei propri concerti, e si esibisse a San Siro davanti a decine di migliaia di persone convinte di quella causa, che sono lì non solo per lo show. Difficile, eh? Inutile pensarci, comunque: non è mica il 27 giugno del 1980, oggi.

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