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Quanto valgono i dischi solisti di Freddie Mercury?

Le canzoni incise senza i Queen contengono i testi più intimi scritti dal cantante e ne esprimono la voglia di superare i limiti. Anche sconfinando nel kitsch

Foto: Peter Röshler

La sola cosa più straordinaria della musica dei Queen è la storia di Freddie Mercury, recitava solennemente il trailer ufficiale di Bohemian Rhapsody. E la sua musica, invece? L’uscita di Never Boring, curatissimo cofanetto antologico che ripercorre le fasi salienti della carriera del cantante al di fuori dei Queen, offre lo spunto per chiedersi, a quasi trentacinque anni dal suo primo album, se vale ancora la pena ascoltare il materiale solista di Mercury. È vero, come si legge spesso, che uno come lui avrebbe potuto cantare l’elenco telefonico trasformandolo in un capolavoro? O, al contrario, che i dischi extra Queen di Mercury non sono mai stati all’altezza del suo talento?

Ai tempi delle registrazioni di Hot Space, la vita dissoluta e senza regole che il cantante conduceva nei club di Monaco aveva finito per allontanarlo non poco dai compagni, oltre a influenzarne radicalmente la visione musicale. Questo, unitamente all’insofferenza legata a tanti anni di lavoro in gruppo, portarono Mercury alla decisione di ballare per un po’ da solo. Spinto dal buon successo di Love Kills, brano solista incluso nella colonna sonora della riedizione di Metropolis, durante le session di The Works Mercury cominciò a lavorare ai brani che, quasi due anni dopo, avrebbero costituito l’album solista Mr. Bad Guy. Il risultato fu spiazzante da ogni punto di vista: chi si aspettava di trovarsi tra le mani qualcosa di simile a un album dei Queen rimase sconvolto dalla freddezza e dall’artificiosità dei suoni; chi cercava sperimentazione e nuovi stimoli capì presto che il tentativo di modernizzarsi di Freddie aveva creato uno strano ibrido. Nel giro di poche settimane il disco sparì dalle classifiche e, poco dopo, dai cataloghi.

Tutto da buttare, quindi? Non proprio. Se si superano la mancanza degli assoli di Brian May e dei giri di basso di John Deacon, e si va oltre l’uso smodato di batterie elettroniche, ci si accorge che quel Freddie Mercury non era così distante da quello di un tempo, soprattuto dal punto di vista dei testi che restano ancora oggi tra i più intimi mai scritti da Freddie. Lui, che per anni aveva dichiarato di non essere interessato a esporsi esplicitamente nelle canzoni e ne aveva sempre sminuito il significato, si ritrovava ad aprirsi in una serie di brani che, all’apparenza, potevano sembrare tra i più frivoli della carriera. Mercury scriveva della ricerca spasmodica di una persona da amare, già cantata in Somebody to Love, della solitudine, della malinconia, dell’essere considerato un tipo poco raccomandabile. Alcuni di questi testi avrebbero potuto competere senza sforzi con molte del passato coi Queen. Per non parlare della title track, uno dei capolavori del disco, la cui magniloquenza anticipava di qualche anno il folle e pionieristico Barcelona.

Se la soprano Montserrat Caballé non avesse risposto pubblicamente alla ripetute avance artistiche di Mercury, molto probabilmente Mr. Bad Guy non avrebbe mai avuto un seguito. Dieci edizioni di Pavarotti & Friends ci hanno convinto che pop lirica possano in qualche modo coesistere, ma il fatto che nel 1987 un’icona mondiale come la Caballé avesse accettato di collaborare con una star della musica popolare venne accolto come qualcosa di inaccettabile da musicofili e cantanti d’opera convinti della propria superiorità. La cosa apparve quantomeno bizzarra anche per il pubblico rock, all’apparenza meno conformista, ma in fin dei conti altrettanto conservatore. Se era vero che le collaborazioni, anche tra generi diversi, erano ormai un fatto consolidato, l’idea del leader dei Queen apparve quasi come il capriccio di una superstar annoiata in cerca di clamore mediatico. La consapevolezza di non aver più nulla da perdere (Freddie era venuto a conoscenza della sieropositività proprio in quel periodo), unita alla voglia di superare nuovamente i propri limiti, portarono l’artista a non considerare minimamente le conseguenze commerciali di un progetto del genere.

Accolto dai puristi come un pastiche senza capo né coda, Barcelona è andato incontro a una giustissima opera di rivalutazione. Oltre a rappresentare forse la sua prova canora migliore di sempre, l’album rappresenta la quintessenza del musicista Mercury. Il lavoro maniacale svolto in studio insieme a Mike Moran per ricreare parti operistiche del disco e la grandeur di brani come How Can I Go On, La Japonaise o la stessa Barcelona, col senno di poi suonano come il primo vero testamento spirituale di un artista conscio di avere ormai i giorni contati. Il vero problema della musica solista di Mercury è il continuo e impietoso confronto con i dischi creati con Brian May, Roger Taylor e John Deacon, prima e dopo le sue ‘scappatelle’. Eppure, quando i tre Queen tornarono in studio per registrare l’ultimo disco di inediti della loro carriera, rifecero due pezzi di Mr Bad Guy, uno dei quali finì addirittura per dare il titolo all’album Made in Heaven. La prova migliore che tanto male non dovevano essere.

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