Metti su il nuovo dei Water From Your Eyes It’s a Beautiful Place e parti per un viaggio nello spazio profondo, ma anche nell’infinitamente piccolo. È la nuova raccolta di pezzi decisamente originali del duo newyorkese formato dal polistrumentista e produttore Nate Amos e dalla cantante Rachel Brown. Per la prima volta hanno fatto un disco sapendo che un pubblico relativamente ampio ascolterà i loro folli esperimenti e lo raccontano qui canzone per canzone.
One Small Step
It’s a Beautiful Place si apre con un loop strumentale stranamente ipnotico e un titolo che allude alle parole pronunciate da Neil Armstrong quando mise piede sulla Luna nel luglio 1969: «Un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità». Per qualche motivo – forse una affinità molto remota con le tastiere di Baba O’Riley – il pezzo ricorda ad Amos la copertina di Who’s Next del 1971, in cui i quattro Who hanno (o fingono di avere) appena finito di pisciare su un blocco di cemento. «Per anni e anni il pezzo era salvato sul mio computer col titolo Piss Monolith. Per me, è la cosa più interessante di tutto l’album».
Life Signs
Segue una tempesta selvaggia di riff tra echi nu metal, rock alternativo, elettronica e pop. Sulla carta Life Signs non dovrebbe funzionare e invece lo fa, e alla perfezione. È stata scelta per lanciare It’s a Beautiful Place. «Penso ai primi singoli degli album come alla scena del Signore degli anelli in cui Aragorn entra nella sala», dice Amos. «Certe canzoni sembrano porte più grandi da sfondare e Life Signs è la porta più grande che potessimo buttar giù». Brown sceglie un’altra metafora per illustrare il potere dirompente del singolo: «È il cappello più colorato». «È la camicia hawaiana più sgargiante», replica Amos.
Nights in Armor
Comincia come un giro di chitarra tranquillo, anche se presto devia in altri territori. «È il primo disco che faccio che sembra davvero un guitar album», dice Amos. «È buffo», aggiunge Brown. «Nate diceva sempre che i pedali sono una stupidaggine e ora è il tipo più fissato con la chitarra che abbia incontrato in vita mia».
Born 2
Il testo di Brown in cui si immaginano altri mondi è ispirato al romanzo I reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin, anno terrestre 1974. «La fantascienza è un genere interessante», dicono i due, «ti dà modo di inserire i problemi reali in un diverso contesto, in modo che il tutto non risulti deprimente e la gente possa apprezzarlo».
You Don’t Believe in God?
Il titolo di questo strumentale viene da una poesia del 2011 di Ada Limón, What It Looks Like to Us and the Words We Use. Brown l’ha scoperta grazie ai social. Descrive una conversazione tra due persone che camminano in una valle. Dopo che viene posta la domanda che dà il titolo al brano, il narratore della poesia risponde: “No. Io credo in questa connessione che tutti abbiamo con la natura, tra di noi, con l’universo”.
Spaceship
Un groove interstellare baciato dal sole è la chiave interpretativa del disco. «L’album è un viaggio nello spazio e ritorno, un viaggio che rafforza la connessione con la Terra», spiega Amos. Voleva sottolineare il tema tramite un effetto eco crescente che raggiungeva l’apice in questa canzone, dove «sei completamente nello spazio», ma l’idea non è piaciuta a Brown. «Di solito non ho molto da dire sulla produzione musicale, perché non è il mio campo, e Nate è un genio», dice lei. «Ma gli echi che aveva messo all’inizio erano folli. “Guarda che è inascoltabile”, gli ho detto, “amico mio, è tremendo”».
Alla fine Amos ha ceduto e ha tolto la maggior parte degli effetti eco dall’LP. «Spaceship era il punto più alto di quello che sarebbe stato un album tragico, che però è stato scartato. Continuo a pensare che concettualmente funzionasse benissimo, ma rendeva le canzoni inascoltabili. Ho fatto un sacrificio per il bene del gruppo».
Playing Classics
Un inno house euforico che rappresenta probabilmente la canzone più orecchiabile che i Water From Your Eyes abbiano mai fatto. Nel comunicato stampa citano come influenza Charli XCX e la Brat Summer, il video include una sequenza ispirata a By the Way dei Red Hot Chili Peppers. «Si sa che amiamo i Red Hot, era divertente rendere loro omaggio», dice Brown. A chiusura del cerchio, per dirigere il clip hanno chiamato James Dayton, amico di Brown dei tempi della scuola di cinema i cui genitori, Jonathan Dayton e Valerie Faris, avevano realizzato il video originale dei Peppers nel 2002. «Siccome è loro figlio non possono dire “ci ha copiati”».
It’s a Beautiful Place
L’influenza dei Peppers si avverte soprattutto nella title track, che consiste in un assolo di chitarra psichedelico, un suono che Amos descrive come Frusciante-core. «Quando suono la chitarra le mie influenze traspaiono più nettamente rispetto a quando lavoro con bip e bloop».
Blood on the Dollar
Il ritmo e la melodia ricordano Knockin’ on Heaven’s Door. Di solito è Brown che scrive il testo, in questo caso è accreditato a Brown-Amos. Questo perché il ritornello “No enemy, nothing but skin / Blood on the dollar / God, make me wind” proviene da un pezzo dell’altro gruppo di Amos, This Is Lorelei. Brown ha modificato le parole per allinearle ai temi esistenziali e cosmici del disco. «Parla della morte», spiega la cantante. «“God, make me wind” vuol dire: rendimi parte dell’universo».
For Mankind
L’album si chiude tornando allo strumentale spaziale che sul computer di Amos era etichettato come Piss Monolith. Gli piace il modo in cui intro e outro costituiscono una sorta di cornice del disco. «E nel mezzo si attraversano tutti questi diversi generi musicali, e il tutto viene sovrastato da un suono che somiglia a qualcosa che puoi sentire in natura». Lui e Brown considerano il confronto tra la vita sulla Terra e la scala incommensurabile del cosmo una parte importante del disco. «Tutto ciò che viviamo è solo una frazione di un nulla nella scala temporale geologica della Terra, per non parlare dell’universo», dice Amos. «Quindi, se le cose sono oggettivamente così insignificanti, perché pensiamo contino tanto?».
«Io una risposta ce l’ho», dice Brown. «L’universo è infinitamente grande, ma le cose sono anche infinitamente piccole. Noi siamo molto più grandi degli elettroni, eppure molto più piccoli della Via Lattea. È tutto relativo. Non l’ha detto anche Einstein?».








